Ogni campagna contro l’evasione fiscale è sacrosanta perché tutti devono pagare le tasse perché è solo attraverso esse che lo Stato può fornire servizi efficienti. Quindi è auspicabile che il comportamento della gente a poco a poco diventi fiscalmente corretto.
L’evasione fiscale in Italia
L’evasione fiscale e contributiva in Italia si aggira mediamente sui 110-111 miliardi di euro all’anno. È questo il dato fornito nella “Relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”. La relazione (2017) fa riferimento ai dati del triennio 2012-2014. Nel 2014, il tax gap, vale a dire la differenza tra le imposte che si dovrebbero pagare e quelle che effettivamente l’erario ha incassato, si è allargato a 111,6 miliardi di euro dai 108 miliardi del 2012.
Il tax gap oscilla tra il 20 e il 30% ed è particolarmente marcato proprio nei servizi alle famiglie, dove il sommerso è al 30%, per scendere poi al 26% nel commercio e nei pubblici esercizi, al 24% nelle costruzioni e al 20% nei servizi alle imprese. Nel solo 2014 il “buco” di imposte pagate – rispetto a quanto dovuto – si impenna quando si parla di redditi da lavoro autonomo e d’impresa: per questa tipologia di IRPEF, infatti, il tax gap si attesta al 59%, circa, mentre per quanto riguarda il lavoro dipendente siamo circa al 4%, e per l’IVA al 30%.
Considerando il periodo 2012-2014, la propensione all’evasione fiscale è lievemente salita (dal 23,6% al 24,8%); i settori dove essa è maggiore sono quelli a più bassa crescita di produttività.
Secondo Enrico Giovannini, presidente della Commissione per la citata relazione, “l’Italia soffre di un problema di crescita della produttività da molti anni ed è evidente che nel momento in cui una impresa riesce ad andare avanti semplicemente attraverso l’evasione, ha molti meno incentivi a trovare una struttura più efficiente, a investire, innovare, quindi l’evasione fiscale ha un ruolo molto importante in un generale grado di arretratezza del sistema economico”.
Evasione fiscale e studi di settore
Gli studi di settore sono uno strumento di tipo statistico che l’amministrazione finanziaria usa per la rilevazione di diversi parametri relativi a imprese, liberi professionisti e lavoratori autonomi. Attraverso gli studi di settore viene compiuta una raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui operano le imprese, allo scopo di effettuare una valutazione delle loro capacità di produrre reddito; vengono utilizzati per l’accertamento induttivo degli esercenti arti e professioni e imprese.
Questo particolare strumento è stato introdotto nel 1993 e, con il passare del tempo, è diventato sempre più elaborato e sofisticato.
Allo scopo di consentire ai contribuenti e ai loro consulenti fiscali di gestire la notevole e complessa mole di dati che vengono richiesti per la compilazione degli studi di settore, l’amministrazione finanziaria mette ogni anno a disposizione un’applicazione software gratuita denominata Gerico.
Quando il modello fornito dall’amministrazione finanziaria è stato debitamente compilato, Gerico fornisce l’esito del calcolo; in particolare vengono forniti i risultati relativi a cluster di riferimento, coerenza economica, normalità economica e congruità. Quando i valori dichiarati si discostano da quelli risultanti dallo studio di settore, il contribuente ha la facoltà (anche se non l’obbligo) di adeguarsi allo scopo di evitare l’accertamento fiscale.
È recente l’istituzione degli ISA, gli Indici Sintetici di Affidabilità, uno strumento destinato a sostituire progressivamente gli studi di settore e con cui l’Agenzia delle Entrate vuole favorire l’assolvimento degli obblighi tributari e incentivare l’emersione spontanea di redditi imponibili. Nelle intenzioni dell’Agenzia delle Entrate, l’istituzione degli indici per gli esercenti di attività di impresa, arti o professioni mira, anche attraverso forme di assistenza (avvisi e comunicazioni in prossimità di scadenze fiscali) ad aumentare la collaborazione fra i contribuenti e l’Amministrazione finanziaria.
Gli evasori
Esistono sostanzialmente tre tipi di evasori.
Evasori amorali – Sono coloro che consapevolmente evadono le tasse; alcuni sono i furbastri della società, altri si difendono dietro l’alibi che “se pagassero tutte le tasse fallirebbero”. Tipico strumento per l’evasore amorale è la trattazione degli affari in nero. Spesso sono evasori totali, altre volte evadono quel tanto che basta per pagare cifre ridicole a fronte della loro attività.
Fiancheggiatori – Per essere tale, l’evasore totale ha contatti con almeno 100, 200 o più clienti: pensiamo al parrucchiere o al medico che non rilasciano MAI ricevuta oppure all’imprenditore edile che fa TUTTO in nero (mi scusino le categorie interessate, sono solo esempi, ci sono tantissimi parrucchieri, medici ecc. onestissimi). Come si fa a definire “onesto” chi per proprio tornaconto personale accetta che l’altro non faccia la ricevuta? È solo un fiancheggiatore!
Evasori di Stato – Poiché la politica fiscale non è che una convenzione sociale (si potrebbe discutere per ore su tantissimi punti), capita spesso che il cittadino cerchi di eludere le tasse, sceglie cioè, in modo giuridicamente lecito, il percorso che gli fa pagare meno tasse.
Compito del politico è fare leggi sempre più chiare che non permettano casi di eclatante elusione, ma appare a tutti lampante come sia un’inaccettabile forma di elusione avere aliquote ridicole per redditi molto elevati. La beffa per il contribuente a redditi medi o bassi è poi rappresentata dal fatto che l’Erario possa contestare forme di presunta elusione e possa pretendere sui redditi originatisi da essi la normale tassazione: per esempio, nel caso di un artigiano contesta una spesa a metà strada fra il privato e la sfera lavorativa. Se la confrontiamo con la ridicola aliquota del 43% che paga una persona che ha un reddito di un milione di euro, si comprende come l’Erario spari agli uccellini e si lasci sfuggire i cinghiali.
Questa situazione è poi alla base della diffidenza che il singolo ha nei confronti dello Stato in materia di tasse.
Quindi i plutomani possono essere visti come evasori di Stato, giustificati per legge a non pagare le tasse.
Il pizzo al plutomane
Si consideri un plutomane che guadagna 2 milioni di euro. In Italia, se la tassazione oltre l’LSP (500.000 euro) passasse dal 43% ad almeno il 60%, pagherebbe 255.000 euro in più di tasse. Di fatto, ognuno dei 999 cittadini che fanno a lui riferimento gli abbuona attualmente 255 euro. Un pizzo di circa 20 euro al mese.
In Italia ognuno di noi ha adottato un plutomane.
La politica plutocratica in materia di evasione
I condizionamenti della plutocrazia dipingono classicamente l’evasore come l’idraulico che lavora in nero o come il medico che non rilascia la ricevuta. Se va bene, un modesto idraulico fa circa 30.000 euro l’anno di lavoro in nero e un medico, anche se affermato, può non rilasciare ricevute per, diciamo, 100.000 euro circa.
Gli studi di settore però “obbligano” ormai il contribuente a dichiarare un certo reddito in funzione di molti parametri della sua attività; addirittura capita che alcuni contribuenti debbano gonfiare i loro redditi per risultare “congrui e coerenti” e non risultare sospetti agli occhi del fisco: preferiscono pagare più tasse di quanto realmente dovuto pur di evitare fastidiosi controlli.
Supponiamo che, nonostante gli studi di settore, il nostro idraulico riesca a evadere 15.000 euro di imponibile e che il nostro medico arrivi a 50.000 euro.
Attualmente le aliquote sono cinque: fino a 15.000 euro 23%, 15-28.000 euro 27%, 28-55.000 37%, 55-75.000 41%, oltre i 75.000 43%. Questi dati sono alla base dell’attuale plutocrazia.
Infatti consideriamo un plutomane con 1.000.000 di euro l’anno; versa circa 400.000 euro e se ne tiene 600.000. Se l’aliquota oltre il limite sociale di profitto fosse il 60% dovrebbe versare 85.000 euro in più, molti di più di quelli evasi dall’idraulico o dal medico. Domanda: chi è il maggiore evasore?