Crescita economica è la parola magica che ogni politico e ogni economista sbandierano ai quattro venti. In questi anni di crisi, la crescita economica sembra essere diventata un Dio che può salvarci dal naufragio. Peccato che possa diventare anche un Dio cui immolare tanti innocenti.
Di fronte alla proposta di un valore, la persona intelligente e dotata di spirito critico non lo accetta entusiasticamente usando magari la strategia dello struzzo (cioè vedendo i soli lati positivi della questione), ma lo analizza in profondità e fa un bilancio costi/ricavi (del resto non è ciò che dovrebbe fare un economista?).
Per analizzare il problema usiamo l’analogia dell’azienda (in questo caso l’azienda Italia).
Se in un’azienda aumenta il fatturato, possiamo dire che la cosa è facilitante la salute dell’azienda, non certo che è sufficiente! Per esempio, il fatturato può aumentare, ma i costi di gestione salire ancora di più sino a portare al fallimento l’azienda stessa: tutti dovrebbero sapere che, in ultima battuta, per l’azienda non è interessante il fatturato quanto l’utile.
Quindi crescita del PIL è un primo grande trucco di chi vuole semplificare le cose, spesso a vantaggio di pochi (i soliti plutomani). Non convinti? Beh, pensiamo a due scenari. Il primo si ha con una crescita del 3%, un risultato che ogni economista definirebbe semplicemente “eccezionale”, il secondo con crescita zero, ma con altri plus.
Bene, chiediamo a un soggetto che guadagna 20.000 euro netti l’anno se:
- Preferisce una crescita del 3% (600 euro in più all’anno) con un differimento dell’età pensionabile di qualche anno, una maggiore flessibilità sul lavoro senza garanzie e 8 ore giornaliere.
- Rimanere tale e quale a ora, ma con una pensione qualche anno prima e solo 4 ore di lavoro.
Solo una persona con gravi problemi esistenziali potrebbe scegliere la prima soluzione. I critici, sostenitori della crescita a ogni costo, diranno: “bella forza, 4 ore di lavoro sono irrealistiche”. Certo che possono esserlo, ma l’esempio mostra che non conta solo il PIL e che la crescita può essere penalizzante quando si perde in qualità della vita, cioè:
- si lavora di più
- si va in pensione più tardi
- si lavora in condizioni peggiori ecc.
Del resto dare un valore assoluto alla crescita equivale a dare un valore assoluto alla ricchezza e questa posizione è tipica del plutomane, l’unico che ci guadagna quando gli “schiavi” lavorano e si dannano per far funzionare una società che è a suo uso e consumo.
Un’ultima riflessione. Prendiamo un’annata pre-crisi, la si scelga a piacere. Se nell’anno X si era soddisfatti dell’andamento dell’economia, perché volere ancora di più (avidità)? Non è meglio lavorare aumentando la libertà dei lavoratori?
Non c’è sviluppo se, a causa della ricerca ossessiva della crescita, diminuisce la qualità della vita dei cittadini.
Un po’ di teoria sulla crescita
Dopo la crisi del 1929, Keynes elaborò la teoria della spesa pubblica secondo la quale il PIL cresce maggiormente tramite la spesa pubblica rispetto a quanto non farebbe con un qualsiasi altro incentivo (per esempio un calo delle tasse) e tale crescita è tanto maggiore quanto più il bilancio pubblico è in pareggio.
Grazie a questo nuovo modello di sviluppo, si è assistito al famoso boom economico post-bellico, che è durato fino agli anni ’80, decennio in cui negli Stati Uniti alcuni economisti hanno cominciato a ipotizzare che un modello fiscale più leggero e l’introduzione di una flat tax (che rappresenta un vantaggio enorme per i ricchi e una vera e propria bastonata per i poveri) favorissero la crescita. In prima linea in questa vera e propria crociata ci fu Arthur Laffer che addirittura si avventurò a sostenere che l’aliquota d’imposta fosse legata in modo evidente alle entrate fiscali: la curva di Laffer (dalla classica forma a campana) indicherebbe che all’aumentare dell’aliquota oltre un certo limite le entrate si ridurrebbero.
Alla base delle ipotesi di Laffer ci sono discutibili ragioni morali: all’aumentare dell’aliquota il cittadino sarebbe più propenso all’evasione, all’elusione e alla sottrazione (cioè all’eliminazione o allo spostamento della produzione del reddito). Oggi dovrebbe essere a tutti chiaro che a livello individuale esiste anche la possibilità di rinunciare ai profitti illimitati semplicemente per vivere meglio!
A prescindere da considerazioni morali, l’ipotesi di Laffer si è dimostrata fallimentare. Ronald Reagan aderì alla teoria di Laffer e riuscì a pilotare un periodo di crescita con una crescita annua media del 3,4% e la creazione di ben 60 milioni di posti di lavoro. Peccato che le entrate fiscali diminuirono in rapporto al PIL e, poiché contemporaneamente aumentò la spesa pubblica, il deficit del Paese esplose. Si può ipotizzare che ciò che è successo a 25-30 anni di distanza sia la naturale conseguenza del fallimento delle ipotesi di Laffer. Si è infatti dimostrato che l’effetto Laffer scatta solo per un tasso minimo delle imposte sul reddito del 70% (negli USA).
Il premio Nobel per l’economia J. E. Stiglitz ha definito (I ruggenti anni Novanta) la teoria di Laffer “una teoria scarabocchiata su un foglio di carta“.
Sulla scia degli USA e del momentaneo successo di Reagan, molti Paesi adottarono la stessa strategia statunitense di riduzione dell’aliquota massima (in Italia nel 1972 l’aliquota massima era del 72%, vedi Obiezioni alla democrazia del benessere); gli unici Paesi che hanno mantenuto come modello di sviluppo quello teorizzato da Keynes nel 1929 sono quelli del nord Europa, dalla Danimarca in su (volendo, anche l’Olanda ha retto rispetto alla concorrenza).
Alta tassazione, servizi pubblici, ridistribuzione del reddito, stimoli per la crescita.
In Italia abbiamo fatto peggio di chiunque altro: durante le fasi di crescita (non cresciamo più dalla fine degli anni ’80, basta vedere i dati) non abbiamo messo da parte nemmeno una lira (o un euro che dir si voglia), e quando il debito pubblico ha cominciato a salire perché il nuovo regime fiscale, di fatto, non permetteva più di coprire i costi dello stato sociale, abbiamo iniziato a tagliare le spese! Se si tagliano le spese, che dovrebbero aiutare i ceti più poveri, e in più si aumentano anche le tasse, i poveri diventeranno sempre più poveri! E si deve spendere ancora di più perché i poveri aumentano! Un circolo vizioso che ci ha portato ad avere uno dei più alti debiti pubblici percentuali del mondo.
NOTA 1 – Molti non lo sanno, ma nell’Italia degli anni ’70 del XX secolo c’erano già aliquote molto alte. L’IRPEF, istituita dal DPR 597/1973, al momento della nascita, aveva 32 aliquote (dal 10 al 72%) e agiva per scaglioni di reddito dai 2 fino ai 500 milioni di lire (tenendo conto dell’inflazione, corrispondono a 15.000 e 3,75 milioni di euro). Incredibile come in 40 anni ci abbiano guadagnato solo i plutomani: l’aliquota minima è lievitata fino a oltre il 20% e quella massima è scesa al 43%!
NOTA 2 – La Norvegia, primo esportatore di petrolio d’Europa, ha sfruttato l’elevatissima imposizione fiscale per dirottare gli enormi profitti del petrolio in un fondo statale che servirà per finanziare la conversione in energie rinnovabili quando il petrolio non ci sarà più ed è servito anche nel 2009 per reggere il duro colpo della crisi mondiale (è per questo che la Norvegia e la Svizzera sono gli unici Paesi a non aver subito un’impennata del debito pubblico: hanno fatto riserve).