L’accento grafico è un segno posto sulle vocali allo scopo di renderne evidenti una maggiore intensità fonica e, in alcuni casi, il grado di apertura.
La lingua italiana prevede tre tipi di accento; quello acuto, quello grave e quello circonflesso.
L’accento è solo un piccolo segno, ma può mettere in grande difficoltà chi scrive; tutti sanno cos’è ma, ciononostante, in varie occasioni viene usato a sproposito. Abbiamo quindi deciso di stilare una piccola guida che possa chiarire gli aspetti più dubbi sul suo utilizzo in modo da evitare grossolani errori.
Accento grafico e accento tonico
Innanzitutto appare opportuno chiarire brevemente la differenza fra accento tonico e accento grafico (quello che tratteremo compiutamente in questo articolo).
Con accento tonico si fa riferimento al rafforzamento o comunque all’elevazione del tono di voce che si dà a una sillaba per metterla in rilievo rispetto ad altre sillabe che compongono una determinata parola; in italiano esso è presente su tutte le parole tranne alcune eccezioni (le proclitiche – parole che si appoggiano nel parlato alle parole che seguono, per esempio gli articoli – e le enclitiche – parole che si appoggiano nel parlato e, a volte nella grafia, alla parola precedente, per esempio andàtosene).
L’accento grafico, invece, è il segno che viene posto sulla vocale della sillaba tonica per indicare che tale sillaba è accentata.
L’accento grafico viene segnato quindi solo su poche parole per evidenziare la necessità o di un determinato timbro vocalico o di una determinata accentazione (o, ma più raramente, accentuazione) per distinguere una parola da un’altra che ha la stessa grafia, ma un diverso significato e una diversa pronuncia (termini omografi); a proposito dei termini omografi, è opportuno ricordare che essi sono uno dei pochi casi in cui, nella nostra lingua, viene ammesso l’accento grafico all’interno di una parola (peraltro questo utilizzo deve essere parsimonioso e riservato soltanto ai casi in cui il rischio di ambiguità sia concreto; se si parla di canne da pesca, è praticamente impossibile cadere nell’equivoco pensando al frutto del pesco); alcuni esempi di termini omografi sono àmbito (sostantivo) e ambìto (participio passato del verbo ambire) oppure princìpi (plurale di principio) e principi (plurale di principe).
L’accento grafico può venirci in aiuto anche per indicare la pronuncia corretta di una parola usata relativamente di rado come, per esempio, ecchìmosi (invece di ecchimòsi; da notare che molti termini medici hanno doppia pronuncia a seconda che vengano pronunciati alla latina o alla greca, quest’ultima di solito preferita; in alcuni casi, come per ecchìmosi, prevale nettamente una forma, mentre in altri, come peróne, è comune anche la forma alla latina, pèrone); per completezza è necessario ricordare che in italiano esistono alcuni termini che ammettono la doppia pronuncia (per esempio alpaca che si può pronunciare indifferentemente àlpaca oppure alpàca).
I tre tipi
La nostra lingua prevede, per la stampa, tre tipi di accento grafico: acuto (ovvero ´), grave (`) e circonflesso (^), quest’ultimo è sempre meno utilizzato nell’italiano contemporaneo, mentre in passato assolveva a più di una funzione (resa del plurale di alcuni sostantivi e aggettivi in –io, distinzione di alcuni termini omografi e segnalazione di alcuni tipi di contrazione utilizzati in passato o nel linguaggio poetico). Ben più importanti (e spesso fonte di errori) sono invece l’accento grave e quello acuto di cui però parleremo più avanti.
Obbligatorietà dell’accento grafico
In alcuni casi, segnare l’accento grafico è obbligatorio, come nel caso di:
- parole tronche (anche ossitone) di due o più sillabe (caffè, città, Perù, virtù, servitù ecc.)
- composti di tre, re, su e blu (trentatré, viceré, lassù, gialloblù)
- alcuni monosillabi.
L’ultimo punto merita una breve riflessione; di regola i monosillabi non vanno accentati graficamente in quanto, essendo costituiti da un’unica sillaba, non possono creare incertezze sulla posizione dell’accento, è per esempio il caso di termini quali fu, ma, no, per, qua, qui, re, sa, sta, sto, su, tu ecc.
Ogni regola però ha (quasi sempre) le sue eccezioni; in questo caso esse sono per esempio rappresentate dai monosillabi che potrebbero generare confusione con parole con identica grafia; tipici casi sono dà (verbo) e da (preposizione), è (verbo) ed e (congiunzione), là (avverbio di luogo) e la (articolo oppure pronome), lì (avverbio di luogo) e li (pronome), né (congiunzione) e ne (avverbio oppure pronome), tè (bevanda) e te (pronome).
Altri monosillabi che devono essere accentati sono ciò, già, giù, più, può e scià.
Accento obbligatorio anche per ché (col significato di affinché o perché) che va distinto da che (congiunzione), dì (sostantivo che significa giorno) che va distinto da di (preposizione), sì (particella affermativa) per non confonderla con si (congiunzione) e sé (pronome riflessivo) che va distinta da se (particella pronominale).
Monosillabi da accentare sono anche alcuni termini ormai usati di rado come, per esempio, diè (troncamento del termine diede), fé (troncamento del termine fede), e piè (troncamento del termine piede).
Alcuni monosillabi possono essere (invero solo teoricamente) confondibili, ciononostante non devono essere accentati; ci riferiamo, per esempio, a: fa (terza persona del presente indicativo del verbo fare e nome della quarta nota musicale), do (prima persona del presente indicativo del verbo dare e nome della prima nota musicale) e mi (pronome personale indiretto di prima persona e nome della terza nota musicale).
La nostra lingua prevede, per la stampa, tre tipi di accento grafico: acuto (ovvero ´), grave (`) e circonflesso (^), quest’ultimo è sempre meno utilizzato nell’italiano contemporaneo, mentre in passato assolveva a più di una funzione.
Accento grave e accento acuto
Nella nostra lingua alcuni termini richiedono l’accento grave (segno che va dall’alto verso il basso), mentre altri richiedono l’accento acuto (segno che va dal basso verso l’alto). La maggior parte degli errori di scrittura relativi agli accenti sono proprio da imputare all’uso scorretto di queste due tipi di accento.
I problemi maggiori riguardano la lettera e; con l’accento acuto indichiamo a chi legge che la e accentata ha un suono chiuso (si pensi a perché), mentre con quello grave si indica la e aperta (si pensi a caffè).
Quando l’accento si trova sulle vocali a, i, u è convenzionalmente sempre grave (nonostante alcune case editrici prevedano, tanto per confondere un po’ l’idee, per la u e la i, l’accento acuto).
Quindi, sostanzialmente, la nostra attenzione, come accennavamo poco sopra, deve essere soprattutto proiettata su è ed é.
Le parole più comuni che richiedono l’indicazione dell’accento acuto sulla e finale sono affinché, benché, ché (col valore di affinché e perché), cosicché, finché, giacché, né, nonché, perché, poiché, purché, sé (pronome riflessivo), sicché e via discorrendo. Vogliono l’accento acuto anche i composti di tre (ventitré, trentatré ecc.) e diversi verbi di seconda coniugazione al passato remoto relativi alle terze persone singolari (per esempio batté, poté e ripeté).
Se stesso o sé stesso?
Questione annosa sulla quale diciamo subito la nostra: sé stesso (e quindi sé stesse e sé stessi). Non tutti saranno d’accordo, ma questa è la linea editoriale che abbiamo scelto per il nostro sito; ci conforta il fatto che molti autorevoli autori sono dalla nostra parte. È vero che secondo una vecchia regola grammaticale il pronome personale sé perde l’accento davanti agli aggettivi dimostrativi stesso e medesimo, ma questa regola appare (si veda fra gli altri anche il parere dei grammatici che scrivono per l’autorevole enciclopedia Treccani) come un’inutile eccezione, un’inutile complicazione e addirittura (secondo alcuni, noi non ci spingiamo a tanto) come una regola “fasulla” e quindi è decisamente consigliabile la forma sé stesso. Una cosa comunque è certa: non si potrà mai scrivere sè stesso.
Accento e apostrofo
Mai confondere l’accento con l’apostrofo; in alcuni casi occorre il primo, in altri occorre il secondo. Classico errore “da confusione” è po’, termine che richiede l’apostrofo; è un grave errore scrivere pò.
Va poi usato l’apostrofo e non l’accento nelle forme dell’imperativo presente della terza persona singolare dei verbi andare (va’ e non và), dare (da’, giusto invece dà nel caso di indicativo presente), dire (di’ e non dì che è un sostantivo che significa giorno), fare (fa’) e stare (sta’ e non stà).