La sera del dì di festa è uno dei più noti componimenti poetici di Giacomo Leopardi. Fu composto a Recanati probabilmente nel 1820 e pubblicato per la prima volta, con il titolo La sera del giorno festivo, sul periodico milanese Il Nuovo Ricoglitore nel 1825, insieme agli altri “idilli”[1]. Comparirà nell’edizione bolognese dei Versi (1826) e nei Canti (1831); nel 1835 farà parte della seconda edizione dei Canti col titolo La sera del dì di festa.
In una lettera a Pietro Giordani del 1820, Leopardi racconta: «Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli». Nella lirica, infatti, il poeta, mentre contempla il paesaggio notturno, pensa alla donna amata, che ignora il suo sentimento; nella seconda parte, centrale è la riflessione sul rapporto tra passato e presente, accompagnata dalla consapevolezza che il tempo è distruttore di ogni cosa.
Testo
Si tratta di endecasillabi sciolti.
- Dolce e chiara è la notte e senza vento,
- E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
- Posa la luna, e di lontan rivela
- Serena ogni montagna. O donna mia,
- Già tace ogni sentiero, e pei balconi 5
- Rara traluce la notturna lampa:
- Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
- Nelle tue chete stanze; e non ti morde
- Cura nessuna; e già non sai né pensi
- Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. 10
- Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
- Appare in vista, a salutar m’affaccio,
- E l’antica natura onnipossente,
- Che mi fece all’affanno. A te la speme
- Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro 15
- Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
- Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
- Prendi riposo; e forse ti rimembra
- In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
- Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri, 20
- Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
- Quanto a viver mi resti, e qui per terra
- Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
- In così verde etate! Ahi, per la via
- Odo non lunge il solitario canto 25
- Dell’artigian, che riede a tarda notte,
- Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
- E fieramente mi si stringe il core,
- A pensar come tutto al mondo passa,
- E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 30
- Il dì festivo, ed al festivo il giorno
- Volgar succede, e se ne porta il tempo
- Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
- Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
- De’ nostri avi famosi, e il grande impero 35
- Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
- Che n’andò per la terra e l’oceano?
- Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
- Il mondo, e più di lor non si ragiona.
- Nella mia prima età, quando s’aspetta 40
- Bramosamente il dì festivo, or poscia
- Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
- Premea le piume; ed alla tarda notte
- Un canto che s’udia per li sentieri
- Lontanando morire a poco a poco, 45
- Già similmente mi stringeva il core.
La sera del dì di festa – Parafrasi
- La notte è mite, serena e senza vento,
- e la luna, quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti,
- riposa e rivela con chiarezza,
- da lontano, ogni montagna. O donna da me amata,
- tutti i sentieri ormai sono silenziosi, e attraverso i balconi
- la luce notturna trapela qua e là:
- tu dormi, poiché un sonno facile ti colse
- nelle tue stanze silenziose; e non ti tormenta
- alcuna preoccupazione; e certo non sai né immagini
- a quale ferita hai aperto nel mio petto.
- Tu dormi: io mi affaccio a salutare
- questo cielo, che a guardarlo appare sereno,
- e la natura antica e onnipotente,
- che mi generò per farmi soffrire. A te – mi disse –
- nego la speranza, perfino la speranza; e i tuoi occhi
- non brillino d’altro se non per il pianto.
- Questo è stato un giorno di festa: dopo gli svaghi,
- ora ti riposi; e forse in sogno ti torna in mente
- a quanti sei piaciuta e quanti
- piacquero a te: io no, non lo spero neppure, certamente
- io non ti ritorno alla mente. Intanto io chiedo
- quanto mi resti da vivere, e qui mi getto
- per terra, grido e mi agito. Oh giorni orribili
- in un’età così giovane! Ahi, per la via,
- non lontano, sento il canto solitario
- dell’artigiano, che torna a tarda notte,
- dopo i divertimenti, alla sua povera casa;
- e il cuore mi si stringe crudelmente
- a pensare a come tutto al mondo passa
- e quasi non lascia traccia. Ecco, il giorno
- festivo è finito, e al giorno festivo
- segue il giorno feriale, e il tempo porta via
- ogni evento umano. Dov’è ora l’eco
- di quei popoli antichi? Dov’è ora il grido
- dei nostri illustri antenati, e il grande impero
- della gloriosa Roma, e gli eserciti e il loro fragore
- che si estese per terra e per mare?
- Tutto è pace e silenzio, e il mondo intero
- riposa, e di loro non si parla più.
- Durante la mia infanzia, quando si aspetta
- con desiderio il giorno festivo, dopo che
- questo era finito, io addolorato e insonne,
- stringevo il cuscino; e a tarda notte
- un canto che si udiva dai sentieri
- e che poco a poco si affievoliva in lontananza
- mi stringeva il cuore allo stesso modo.
La sera del dì di festa – Analisi
Il titolo “La sera del dì di festa” presenta la situazione da cui prende spunto la lirica e che origina la riflessione del poeta: in una notte «dolce e chiara» e «senza vento» (v. 1) – giunta alla conclusione di un giorno «solenne» (v. 17), festivo, e anticipatrice del «giorno / Volgar» (vv. 31-32) – il poeta contempla il paesaggio e pensa alla donna amata («donna mia», v. 4), che dorme e non è toccata da alcuna preoccupazione. Il contrasto tra lo stato d’animo di quest’ultima e quello dell’io lirico è espresso ai vv. 11-16: «l’antica natura onnipossente», infatti, lo ha destinato «all’affanno» e gli ha negato «anche la speme», costringendolo a un’infelicità perenne («Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto»).
L’indifferenza della Natura nei confronti del poeta viene messa in parallelo con quella della donna, che forse sogna gli uomini a cui è piaciuta e che le piacquero, tra i quali – il poeta ne è certo – non figura lui («non io, non già, ch’io speri / al pensier ti ricorro», vv. 20-21).
Di nuovo, il pensiero del poeta torna al proprio destino («Intanto io chieggo / Quanto a viver mi resti, e qui per terra / Mi getto, e grido, e fremo», vv. 21-23), ingiusto per un’età così giovane («Oh giorni orrendi / In così verde etate!», vv. 23-24).
L’io lirico torna al presente non appena sente, in lontananza, «il solitario canto / dell’artigian» (vv. 25-26), ma anche questo evento diventa motivo di riflessione sull’azione del tempo, che porta via ogni cosa («tutto al mondo passa, / E quasi orma non lascia», vv. 29-30; «se ne porta il tempo / Ogni umano accidente», vv. 32-33) e che scorre inesorabile («Ecco è fuggito / Il dì festivo», vv. 30-31), secondo un topos classico (l’espressione tratta dalle Bucoliche virgiliane, Omnia fert aetas, Il tempo porta via tutte le cose, ne è un esempio).
Anche ciò che nel passato è stato grande – come le grandi civiltà e i grandi imperi – è destinato a finire e ad essere dimenticato («più di lor non si ragiona», v. 39), lasciando «pace e silenzio» (v. 38).
Nel finale, il passato e il presente vengono posti in un rapporto di parallelismo dallo stato d’animo del poeta: quel canto di artigiano che nel presente gli «stringe il core» è simile al «canto che s’udia per li sentieri» (v. 44) e che gli «stringeva il core» (v. 46) durante l’infanzia («Nella mia prima età», v. 40), quando, anche allora, aspettava «bramosamente il dì festivo».
La sera del dì di festa è una delle più note poesie di Giacomo Leopardi. Fu composta a Recanati probabilmente nel 1820 e pubblicata per la prima volta con il titolo “La sera del giorno festivo”
La sera del dì di festa – Figure retoriche
Per quanto riguarda le figure retoriche, oltre ai numerosi enjambement, vanno ricordate l’apostrofe al v. 4 («O donna mia»), le anafore ai vv. 7 e 11 («tu dormi […] tu dormi») e ai vv. 33-34 («or dov’è […] or dov’è»), la prosopopea della Natura ai vv. 14-16 («A te la speme / Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto»), il climax ascendente al v. 23 («mi getto e grido e fremo») e 33-36 («suono […] grido […] fragorio»), la metafora al v. 24 per indicare la giovinezza («In così verde etate»), il chiasmo ai vv. 30-32 (Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede), la sineddoche al v. 43 («piume» per cuscino o letto).
La figura del polisindeto è ricorrente (vv. 1-3; Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / Posa la luna, e di lontan rivela; vv. 8-9, Nelle tue chete stanze; e non ti morde / Cura nessuna; e già non sai né pensi; vv. 22-23, e qui per terra / Mi getto, e grido, e fremo; vv. 35-36, De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio / Che n’andò per la terra e l’oceano?).
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[1] Il termine “idillio” deriva dal greco “eidyllion” e significa “piccola immagine, quadretto”, dunque indica una “poesia breve”. Nell’antica Grecia il vocabolo si riferiva a un genere di poesia bucolica, agreste, in cui veniva messa in risalto la vita di campagna. Negli idilli leopardiani il paesaggio diventa occasione per una riflessione esistenziale.