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Vento a Tindari (Quasimodo)

Vento a Tindari è un componimento poetico di Salvatore Quasimodo, che fa parte della prima raccolta Acque e terre (1930) e che è un esempio della stagione ermetica del poeta.

Il poeta si trova, insieme ad alcuni amici, a Tindari, città posta su un promontorio affacciato sul mar Tirreno. Egli, osservando il paesaggio, sente il legame con la propria terra, ma anche la nostalgia che gli provoca una vita vissuta lontano – si era trasferito a Milano – da quei luoghi, quasi una sorta di esilio.

Si tratta di cinque strofe di varia lunghezza costituite da versi liberi, in prevalenza endecasillabi.

Testo

Di seguito il testo di Vento a Tindari.

Tìndari, mite ti so

fra larghi colli pensile sull’acque

dell’isole dolci del dio,

oggi m’assali

e ti chini in cuore.                                                    5

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,

e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’aria,

onda di suoni e amore,                                           10

e tu mi prendi

da cui male mi trassi

e paure d’ombre e di silenzi,

rifugi di dolcezze un tempo assidue

e morte d’anima.                                                    15

A te ignota è la terra

ove ogni giorno affondo

e segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,                                               20

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta                                           25

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo nel buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere.                                            30

Tìndari serena torna;

soave amico mi desta

che mi sporga nel cielo da una rupe

e io fingo timore a chi non sa

che vento profondo m’ha cercato.                           35

Vento a Tindari – Parafrasi

Di seguito la parafrasi di Vento a Tindari.

Tindari, so che sei mite

quasi sospesa, fra i colli ampi, sulle acque

delle isole dolci [Eolie] sacre al dio [Eolo],

oggi mi assali

e commuovi il mio cuore.

Salgo su picchi altissimi a strapiombo,

assorto ad ascoltare il vento tra i pini,

e il gruppo di amici che mi accompagna con passo leggero

si allontana nello spazio circostante,

come un’onda di voci confuse e a me care,

e tu [Tindari],

dalla quale mi allontanai contro la mia volontà

mi catturi, e insieme [mi catturano] le paure di cose oscure e di silenzi,

un tempo rifugi di dolcezze frequenti,

e [mi cattura] una disperazione dentro l’anima.

Ti è ignoto il luogo

in cui ogni giorno mi sembra di affondare

e in cui compongo versi segreti:

una luce diversa, di notte,

si proietta sui tuoi vetri,

e dentro di te riposa

riposa una serenità che non è la mia.

L’esilio è amaro,

e la ricerca di armonia, che in te vedevo compiuta,

oggi si trasforma

in una precoce ansia di morte;

e ogni amore è un modo per ripararmi dalla tristezza,

un passo silenzioso nel buio

in cui mi hai messo

per trovare un lavoro e il pane [che tu non hai potuto offrirmi].

Tindari torna serena;

un amico premuroso mi richiama

per farmi sporgere da una rupe verso il cielo

e io fingo di aver timore di fronte ai miei compagni

che non sanno quale vento profondo mi abbia toccato.

Vento a Tindari - Quasimodo

Vento a Tindari è un componimento poetico di Salvatore Quasimodo, che fa parte della prima raccolta Acque e terre (1930) e che è un esempio della stagione ermetica del poeta.

Vento a Tindari – Analisi

Di seguito l’analisi del testo di Vento a Tindari.

Il paesaggio che il poeta ammira durante l’uscita con gli amici («la brigata che lieve m’accompagna», v. 8) lo tocca nel profondo e si lascia trasportare dal vento tra ricordi passati e presenti: egli confronta la sua condizione attuale – a Milano, una terra che sente ostile anche per la ricerca poetica, tanto da fargli sperimentare un’«ansia precoce di morire» (v. 26) – e il tempo vissuto in una Sicilia (Tindari, per sineddoche, indica l’intera regione; inoltre la città è personificata e il poeta vi instaura un colloquio) che non sente più sua («altra luce ti sfoglia sopra i vetri / e gioia non mia riposa / sul tuo grembo», vv. 19-22).

Solo nell’ultima strofa il poeta, sollecitato da un amico, si desta dai pensieri e maschera la sua nostalgia con il turbamento per la vertigine dovuta all’altura sulla quale si trova. Sembra avvenga una sorta di riconciliazione («Tindari serena torna», v. 31) e che il «vento» di rimpianti e ricordi che lo aveva rapito sia passato.

Nella parte centrale della lirica (vv. 11-30), la tristezza, il tormento e la malinconia sono dominanti, come suggerisce anche il lessico utilizzato: «male», «paure», «ombre»,  «silenzi», «morte», «affondo», «aspro», «ansia», «morire», «tristezza», «buio», «amaro».

Il poeta confessa di essersi dovuto allontanare controvoglia («male mi trassi», v. 12) per raggiungere un luogo («terra / ove ogni giorno affondo», v. 17) che potesse offrirgli una migliore prospettiva di vita offuscata però dal rimpianto di aver lasciato l’amata terra natale («aspro è l’esilio», v. 23; «nel buio / dove mi hai posto / amaro pane a rompere», vv. 28-30).

L’uso dei plurali comunica al lettore un senso di indefinitezza («larghi colli», «vertici aerei precipizi», «paure d’ombre e di silenzi», espressione questa che accosta il campo sensoriale della vita e quello dell’udito, «rifugi di dolcezze»).

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