Non recidere, forbice, quel volto è una nota poesia di Eugenio Montale; fu composta nel 1937 e pubblicata per la prima volta nel 1938, sulla rivista greca Olimpo, col titolo Quinto mottetto, che però non viene mantenuto al momento della pubblicazione nella raccolta Le occasioni (1939), all’interno della quale è il numero XVIII.
Il tema è quello del tempo che scorre inesorabile: esso viene immaginato dal poeta come una forbice, alla quale chiede di non distruggere l’immagine del volto dell’amata rimasta nella sua memoria; tale speranza è però vana, come dimostra l’immagine del giardiniere che comparare nella seconda quartina e che, ad autunno inoltrato, pota i rami d’acacia che cadono nel fango, che pervade il poeta di un senso di morte e solitudine.
Si tratta di due quartine composte da tre versi endecasillabi e un settenario.
Testo
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta. 5
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Non recidere, forbice, quel volto – Parafrasi
Di seguito la parafrasi di Non recidere, forbice, quel volto.
O forbice, non tagliare il ricordo di quel volto,
rimasto l’unico nella mia memoria che si sta svuotando,
non disperdere quel viso che mi ascoltava
nell’indistinta nebbia dei miei ricordi.
Cala il freddo… Il colpo [dell’accetta] taglia duramente.
E l’acacia colpita lascia cadere
il guscio di cicala
nella prima fanghiglia di Novembre.
Non recidere, forbice, quel volto – Analisi
Di seguito l’analisi del testo di Non recidere, forbice, quel volto.
Montale sceglie alcuni oggetti per rappresentare la sua condizione interiore e l’idea che la memoria tenda a sfumare a causa del tempo che passa. La «forbice» dell’incipit è quella del tempo pronto a colpire e ferire la «memoria» che gradualmente «si sfolla», si svuota dei ricordi, rendendoli metaforicamente una «nebbia» nella sua mente: il poeta prega affinché almeno il ricordo del «volto» dell’amata venga risparmiato dal «colpo» del tempo.
Nella seconda quartina la “preghiera” del poeta riceve una risposta attraverso l’immagine della lama dell’accetta, fredda come la stagione autunnale che ha spazzato via l’estate, che sferra il proprio colpo sui rami dell’acacia, che rimane «ferita». Lo stesso avviene con i ricordi: l’albero che perde i suoi rami, con il «guscio di cicala» che cade sul terreno fangoso, è come la «memoria che si sfolla» perdendo anche quel volto, quel «viso in ascolto» che il poeta sperava di poter mantenere vivo nella sua mente. Il colpo del tempo ferisce, implacabile e inesorabile.