Le intolleranze alimentari sono le “allergie non allergiche”. Questa definizione risale al 1991, quando l’allergologo Kaplan presentò un suo articolo in cui descriveva l’esistenza di stati allergici che non era possibile correlare alle immunoglobuline E (IgE). Quindi, il primo punto da comprendere è che allergie tradizionali e intolleranze alimentari non sono la stessa cosa.
L’allergia coinvolge il sistema immunitario mentre le intolleranze alimentari colpiscono il nostro metabolismo, per esempio con il deficit di un enzima che ci permette di assimilare una sostanza.
Le intolleranze alimentari accertate – Attualmente la medicina convenzionale ha evidenziato intolleranze alimentari solo nei casi del lattosio (per approfondimenti si veda il nostro articolo Intolleranza al lattosio), del glutine (vedasi il nostro articolo Celiachia) e dei pentoso-fosfati (vedasi il nostro articolo sul favismo). Anche per queste treintolleranze alimentari occorre comunque procedere con i piedi di piombo ed evitare di attribuire ad esse malesseri del soggetto; non a caso in entrambi i casi molti sono i falsi positivi a test troppo “disinvolti”.
A tutt’oggi non esiste una causa dimostrata e da tutti accettata sulla natura delle intolleranze alimentari (fra le più gettonate ci sono l’introduzione precoce del latte vaccino, le infezioni intestinali virali o batteriche, l’uso massiccio di antibiotici, lo stress ecc.) e ciò è fonte di gravi contraddizioni e di posizioni scientificamente prive di valore.
Classificazione delle intolleranze alimentari
In base alle reazioni avverse ai cibi, le intolleranze alimentari si suddividono in:
- intolleranze da difetti enzimatici, causate dalla carenza o dall’assenza di enzimi necessari alla metabolizzazione di alcuni substrati come l’intolleranza al lattosio o il favismo;
- intolleranze da principi farmacologicamente attivi, per esempio a componenti alimentari farmacologicamente attive come le ammine vasoattive (tiramina o istamina);
- intolleranze da meccanismi non chiari spesso riconducibili a fattori psicologici o neurologici, come le intolleranze agli additivi.
Intolleranze alimentari e patologie
Il campo delle intolleranze alimentari è in continua evoluzione; secondo chi opera nel settore delle intolleranze, il 40-50% della popolazione ne sarebbe afflitto, secondo la scienza ufficiale non più del 5% avrebbe disturbi dovuti alle intolleranze alimentari.
Poiché le intolleranze alimentari sono responsabili di una minor difesa dell’organismo, alcune patologie potrebbero essere significativamente interessate: riniti, asma, congiuntiviti, dermatiti, dermatosi, eczemi, psoriasi, coliti. Per altre si ipotizza l’importanza del ruolo degli aspetti immunitari dell’alimentazione, ma sembra ancora prematuro inserirlo fra i fattori prioritari di considerazione.
Ciò che è importante notare è che la relazione fra patologia e intolleranza è probabilistica nel senso che la patologia può dipendere dall’intolleranza alimentare, non dipendere necessariamente da essa. Utilizzando la legge di guarigione totale, il soggetto che soffre di una patologia e al quale è stata diagnosticata un’intolleranza alimentare, nel momento in cui elimina l’intolleranza, deve guarire dal suo problema: un generico leggero miglioramento o un semplice allungamento delle recidive deve far continuare l’indagine delle cause al di fuori del campo alimentare. In altre parole, non si deve incorrere nell’errore di monocausa, rapportando ogni stato del soggetto al suo profilo alimentare.
Intolleranze alimentari: intolleranza al lattosio – In Italia il deficit di lattasi (enzima necessario per la digestione dei carboidrati contenuti nel latte) risulta presente in circa il 40% della popolazione con valori decrescenti passando dalle regioni meridionali a quelle settentrionali; non tutti i soggetti carenti di lattasi presentano una sintomatologia rilevante a livello clinico.
I test per le intolleranze alimentari: le difficoltà
Vediamo ora le difficoltà dei test per le intolleranze alimentari.
La sensibilità – È la probabilità che un soggetto malato (quindi intollerante) presenti un risultato positivo. Se il test è affidabile dovrebbe essere il 100%. Poiché si conosce e si riesce a diagnosticare l’intolleranza al glutine (celiachia), si può usare questa forma di intolleranza per valutare la sensibilità dei test. I test non scientifici hanno dimostrato sensibilità che non arrivano mai al 30%, nonostante siano molto propensi a giudicare un soggetto intollerante a qualche alimento. Alcuni test scientifici sotto esame sembra possano arrivare al 70%, una percentuale comunque non soddisfacente. Ricordiamo che una percentuale non indica affatto un successo: anche inventando un test a caso, è possibile giudicare intolleranti individui celiaci con percentuali dell’ordine del 20-30%. Il trucco è semplice: basta considerare l’80% della popolazione intollerante a qualcosa, privilegiare le intolleranze alimentari più conosciute e si azzeccherà almeno nella metà dei casi di celiachia.
La specificità – È la probabilità che un soggetto sano presenti un risultato negativo. Dovrebbe essere 1 (cioè il 100% dei soggetti sani risulta negativo). Questo è il punto dolente dei test anti-intolleranze. I falsi positivi sono quella percentuale (variabile da test a test) che risulta intollerante, ma non presenta problemi, cioè è sana. Per i test non scientifici tale percentuale è molto alta, circa l’80%: se prendiamo cioè 100 soggetti sani e li sottoponiamo al test, ben 80 risultano malati (cioè la specificità è solo del 20%)! A questo punto il test diventa scarsamente affidabile anche sui malati.
La tipologia degli alimenti – Alcuni test come il VEGA vogliono verificare l’intolleranza su alimenti complessi, per esempio il cioccolato. Il problema è come fare a capire se uno è intollerante a latte, cacao, zucchero, lecitina di soia, o grassi idrogenati vegetali. Altri (come il DRIA) raffinano gli alimenti. Però anche se si semplificano gli alimenti, si tratta sempre di cibi costituiti da decine di sostanze. E se si scoprisse che l’intolleranza è per una certa vitamina (per esempio chi è intollerante al lievito potrebbe essere intollerante a vitamine del gruppo B contenute nel lievito) o per un certo aminoacido, che senso ha testare alimenti anche semplici che contengono decine di vitamine o decine di aminoacidi?
La quantità degli alimenti – Generalmente si arriva a 30-40, nei test più costosi a 100-150. Non è credibile scientificamente che ne bastino così pochi. A volte si ragiona per classi (i formaggi), ma ciò nasce dal non sapere esattamente ancora qual è la vera sostanza che produce l’intolleranza. Analizzare il grana e supporlo rappresentante di tutti i formaggi (ricotta, pecorino, groviera) dal punto di vista scientifico è l’equivalente per un biologo analizzare un topo anziché un elefante (tanto sono tutt’e due mammiferi). Basti pensare che gli additivi sono centinaia per capire come è rozzo definire una persona intollerante ai salumi: e se fosse intollerante ai conservanti contenuti in essi, piuttosto che all’alimento in sé (la maggior parte dei salumi contengono nitriti e nitrati). È molto più ragionevole pensare che un soggetto sia intollerante a un additivo (e, ripetiamo, sono centinaia) che a un alimento.
Le estensioni – Molti terapeuti hanno visto che eliminando gli alimenti positivi la situazione del paziente non migliorava (già questo è un limite al test); allora hanno esteso gli alimenti proibiti a partire dall’alimento trovato positivo. A prescindere dal fatto che se le estensioni sono troppo vaste l’alimentazione diventa un incubo, che senso ha escludere alimenti che sono risultati negativi? Per esempio, l’intolleranza al solo lievito chimico genera l’esclusione di tutto ciò che è fermentato; genera anche l’esclusione del lievito di birra, del formaggio grana, del dado da brodo ecc. In genere ciò viene spiegato con il fatto che nel meccanismo di somma infiammatoria che si determina mangiando cibi verso cui esiste intolleranza, ogni cibo che determina fermentazione ha un minimo effetto o grande effetto nel determinare la sommatoria finale. Spiegazione a livello di stregoneria, piuttosto che di scienza, poco convincente perché a questo punto il cibo incomincia a diventare un GRANDE NEMICO.
L’incompatibilità – I vari test sono fra di loro incompatibili nel senso che non danno gli stessi risultati. Questa non è una prova di condanna generale (potrebbe essercene uno valido e gli altri no), ma deve far riflettere. Inoltre molti test non scientifici risalgono a 40-50 anni fa: nonostante ciò non sono riusciti ad affermarsi con credibilità.
I test alternativi
Esistono diversi test che non rientrano nella medicina convenzionale e che ottimisticamente promettono di rivelare le intolleranze alimentari.
- Vega -Un test come altri simili (Bioscreening, Biostrenght test, Sarm test, Moratest) che dovrebbe funzionare osservando nell’elettroagopuntura secondo Voll le variazioni del potenziale elettrico in relazione al contatto con alimenti “nocivi”. In due recenti studi la metodica non si è dimostrata in grado di distinguere i sani dai malati allergici ad acari o gatto.
- Citotest – Nulla dimostra che l’allergia alimentare sia sostenuta da meccanismi di citotossicità; il test non individua reazioni immunologiche. Anche la variante Alcat non ha spessore scientifico.
- Test del capello – In uno studio del 1987 (pubblicato su Lancet) si è valutata l’incapacità di discriminare soggetti affetti da allergie alimentari al pesce da soggetti sani. In 5 diversi laboratori stesso negativo risultato.
- DRIA – Uno studio pubblicato dal British Medical Journal (1988) ha dimostrato che la capacità di discriminare pazienti con patologie è “puramente casuale”.
- Dosaggio IgG specifiche – Almeno 4 studi controllati evidenziano che anticorpi IgG specifici per i comuni allergeni alimentari possono essere riscontrati in soggetti sani e in altre patologie. Il loro dosaggio non fa parte della diagnostica dell’allergia alimentare.
- Iridologia – Una rassegna di studi controllati disponibili (4) ne esclude la validità diagnostica.
- Biorisonanza – Afferma che l’organismo può emettere onde elettromagnetiche e che gli alimenti possano influenzare l’emissione. L’apparecchio in commercio non è in grado di misurare le presunte onde elettromagnetiche e non esiste alcuna prova scientifica a supporto del test.
- Pulse test (riflesso cardiaco auricolare) – L’intolleranza a un certo alimento assunto per bocca, per iniezione o per inalazione, ma anche posto a 1 cm dalla cute, sarebbe in grado di modificare la frequenza cardiaca. Lo spessore scientifico è nullo.
Perché hanno successo? “Offrono una risposta ai malesseri” risponde Carolina Ciacci, gastroenterologa al Federico II di Napoli “sono facilmente accessibili, si decide da soli quando farli, basta pagare. Io, però, li vieterei“.
I test “scientifici”
I test scientifici sono molto recenti e sono la risposta della scienza ufficiale al dilagare (spesso facilitato da enormi interessi commerciali) di test non scientifici. Negli ultimi anni sono nati alcuni test per le intolleranze alimentari che, partendo da una spiegazione dell’intolleranza, si prefiggono di rilevarla. Purtroppo, nonostante l’entusiasmo dei promotori, sono ancora sotto esame e nulla di definitivo si può affermare.
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