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Patosensibili

Chi sono i patosensibili, un neologismo del Well-being? Il Well-being definisce tre mondi: quello dell’odio (sperabilmente vuoto), quello dell’amore (sperabilmente ricco di persone a noi vicine) e quello dell’indifferenza (che con parole molto dure potremmo definire “degli estranei”). Verso questo mondo non si può essere coinvolti emotivamente più di tanto;

il patosensibile è invece colui che non riesce a elaborare un sufficiente distacco dal dolore che ha attorno, ma che non lo coinvolge direttamente.

Il patosensibile è colui che “soffre con l’altro”, spesso pur “non conoscendolo” minimamente.

Di questa sofferenza non esiste nessuna giustificazione, né teorica né pratica.

In genere la patosensibilità non è una personalità dominante, nel senso che un minimo grado di patosensibilità è in tutti noi. In alcuni soggetti però diventa prioritaria e ne condiziona moltissimo la vita. Di norma è una deformazione di altre personalità (irrazionali, mistici, deboli, fobici), originatasi dall’estrema priorità che il soggetto dà al mondo neutro, quello dell’indifferenza.

La considerazione che condanna la patosensibilità è che, se è giusto soffrire ogni volta che si vede o si ha coscienza del dolore, allora la nostra vita è dolore e la felicità è impossibile. Se gioissi o fossi triste per qualcosa che accade a persone che nemmeno conosco, sarebbe la fine: la mia vita sarebbe vissuta in funzione delle notizie dei telegiornali. Forse che dovrei piangere per due ostaggi uccisi e non per quattro giovani vite stroncate in un incidente del sabato sera? E perché non piangere per tutti coloro che stanno soffrendo in un letto di ospedale, vittime di un male incurabile, magari bambini di pochi anni? Insomma, il dolore è ovunque: che diritto ho io di sceglierne uno migliore di altri? Ma soprattutto:

poiché so che il dolore esiste ed è dappertutto, che senso ha addolorarsi solo quando lo si vede e dimenticarlo quando non lo si vede, magari divertendosi?

Piuttosto ipocrita, no? Se il patosensibile fosse coerente, la consapevolezza che in questo momento c’è sicuramente qualcuno che sta morendo, che sta soffrendo ecc. dovrebbe renderlo continuamente triste.

Il patosensibile risolve i problemi etici della sua esistenza con massime che a lui sembrano di una profondità estrema, inattaccabili e “scontate”:

  • ama il prossimo tuo come te stesso;
  • non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te;
  • la vita è sacra ecc.

Il vero problema è che non sa uscire dalle contraddizioni logiche che tali frasi portano con sé, soprattutto in occasione di conflitti peraltro non sempre ipotetici. Per chi fosse interessato ai problemi di coerenza che tali massime generano, rimando alla pagina sul prossimo.

Autostima e patosensibilità

In molti patosensibili la patosensibilità è fondamentale per la propria autostima: sentirsi buoni o apparire buoni dà loro quei valori morali che li “fanno sentire a posto”. Per un’autostima che deriva dal dentro di sé non ci sarebbe nulla di male, se non che, per sentirsi a posto, devono… soffrire!

Così, anche se positivi, non riescono a godere pienamente delle gioie del mondo perché le macchie e le ombre del dolore escono a tratti a oscurare i loro pensieri e le loro azioni. In una versione moderna della novella pirandelliana In albergo è morto un tale, se nell’albergo dove soggiornano muore improvvisamente un ospite, si asterranno quella sera dal vedere un film comico o non ce la faranno a gioire per la partita di calcio della squadra del cuore.

Le tipologie

Esistono due tipologie principali di patosensibili: l’idealista e l’ipocrita.

L’idealista – Il patosensibile idealista è una persona che ha razionalizzato la sua patosensibilità (infatti spesso non si ritiene nemmeno patosensibile); non soffre più di tanto per il dolore che è nel mondo perché tiene a bada il suo senso di colpa per la sofferenza altrui con la sua etica (per esempio, è anche sempre pronto a giustificare il male fatto dagli altri, è o vuole apparire una “brava persona”). Spesso sente come colpa anche le condizioni facilitanti e quindi tende a rifiutarle, soprattutto la ricchezza. L’idealista ha elaborato tutta una serie di teorie più o meno articolate per dimostrare a sé stesso (prima che agli altri) che la sofferenza che avverte nel mondo non è colpa sua. Ha elaborato una sua morale le cui basi sono circa queste:

Ovviamente è impossibile non creare nessuna sofferenza nell’ambiente che ci circonda. Si tratta di avere un atteggiamento equilibrato bilanciando la sofferenza che inevitabilmente si crea con le necessità fisiche e psicologiche legate al vivere. L’etica consiste nell’arte di avere un modello di vita che provochi la minore sofferenza all’ambiente che ci circonda massimizzando al tempo stesso la felicità personale.

Questa base di partenza può essere condivisa da tutti, ma… non serve a nulla. Leggiamo attentamente la definizione e scopriremo che ognuno può interpretarla a suo modo. Immaginiamo tutto graficamente, una linea (segmento dell’egoismo) sulla quale stanno le sofferenze dell’ambiente esterno; a un capo si parte da sofferenze sconosciute come chi muore a causa di una guerra di cui nessuno parla, poi procedendo sulla linea, sofferenze sentite da altri, soprattutto dai media, poi quelle di persone con cui si viene in contatto che non fanno parte del nostro mondo dell’amore, infine le sofferenze di chi amiamo. Il principio sopraesposto non vuol dire altro che decidere di porsi in un certo punto (punto Z) della linea, verso destra o verso sinistra, ma dove situarsi, questo il principio non lo dice e ognuno lo interpreta in base alla propria sensibilità. Così c’è chi è sensibile alla sofferenza dei bambini che muoiono di fame e poi vive comunque ben al di sopra della soglia della povertà oppure chi è contro la caccia e magari non è nemmeno vegetariano. Il patosensibile è tale perché in questo suo posizionamento tiene in eccessivo conto la sofferenza dell’ambiente esterno, ma in sostanza è un falso santo perché non avverte l’ipocrisia di un punto Z puramente soggettivo, scelto in funzione della qualità della vita, sua e dei suoi cari. Magari è disposto a rinunciare a molte più cose della media della popolazione, ma se ne tiene ben strette altre, insomma non è certo un novello San Francesco!

Per una persona equilibrata il posizionamento è dato dalla qualità della sua vita, cioè dalla massimizzazione della propria felicità; è la società con le leggi che impedisce che questi posizionamenti egoistici possano degenerare in conflitti fra individui: essere criminali e rapinare una banca per arricchirsi, al di là di ogni considerazione etica, non ha semplicemente senso perché “non conviene”. Purtroppo il patosensibile è invece convinto che ogni sofferenza inflitta (quindi anche quelle legali, magari involontarie o nella necessità delle cose) si ritorca a mo’ di boomerang attraverso una rete di interconnessioni profonde e invisibili. Anche in questa convinzione è evidente la priorità data alla sofferenza anziché alla felicità personale e non comprende la vera soluzione. Infatti il patosensibile idealista trova egoistica la teoria dei tre mondi perché ritiene assurdo non provare nulla per chi è nel mondo neutro, non riesce a comprendere come ci possano essere persone così insensibili da non sentire quel macigno della sofferenza del mondo che lui, più o meno inconsciamente, sente sopra di sé. Non comprende che se ognuno amasse veramente il proprio mondo dell’amore, poiché i mondi dell’amore dei singoli individui sono fra loro parzialmente sovrapposti, l’onda d’amore si allargherebbe a tutto il mondo con un effetto positivamente devastante (Ved. più avanti La vera soluzione).

Esistono due sottotipologie definite dal grado di azione dell’idealista.

L’idealista teorico è colui che “a parole” ama tutto il mondo, ma in pratica non fa granché per aiutarlo. Poiché l’amore si dimostra con le azioni, è una versione nobile del patosensibile ipocrita. Sicuramente è persona gentile, ogni tanto dà l’elemosina a una persona che soffre, porta i suoi vestiti vecchi ai poveri, partecipa a un incontro sulla pace, magari adotta un bambino a distanza. Il suo impegno in termini economici è minimo rispetto alle sue possibilità (è un teorico anche il mecenate che dà in beneficenza la millesima parte di ciò che guadagna in un anno) e lo è pure quello in termini di tempo. La sua azione non è più risolutiva di quella di chi si impegna per favorire la solidarietà come sentimento sociale (che senso ha dare spontaneamente l’1% del proprio reddito? Non è più giusto battersi perché per solidarietà sociale tutti lo facciano?), ma lui si sente “migliore”.

Il pratico è invece colui che quotidianamente fa qualcosa per il mondo neutro (esempio classico: madre Teresa di Calcutta), per esempio il medico che si sottopone a massacranti turni di lavoro, ben più di quello che gli è richiesto dal livello standard della sua professione. In questo secondo caso siamo di fronte a sindromi del missionario, cioè a persone che non hanno un proprio mondo dell’amore (e trasformano il mondo neutro nel proprio mondo dell’amore, ma non si può certo pretendere che tutti lo facciano) oppure trascurano il proprio mondo dell’amore a favore di quello neutro.

patosensibiliL’ipocrita – Il patosensibile ipocrita è la versione moralmente discutibile del patosensibile idealista, tanto che in alcuni casi può esserne una degenerazione (pensiamo agli idealisti che sono pronti ad aiutare i bisognosi e poi si scannano nelle riunioni di condominio con il vicino che fa questo o quello).

L’ipocrita vive più di buonismo che di empatia altruistica.

Gli ipocriti in genere sono associabili alle altre personalità, deboli, sopravviventi, insufficienti, semplicistici in primis. Il meccanismo è semplice, quello che è richiamato dal noto detto mal comune, mezzo gaudio. Il soggetto è patosensibile perché si immagina nella stessa condizione di chi è oggetto della sofferenza. Un debole, per esempio, potrà avere una patosensibilità esagerata per bambini e per anziani o più modernamente per gli animali: pensiamo al mendicante che per raccattare qualche soldo in più si “dota” di cagnolino strappalacrime; il mio springer ha occhi talmente cadenti che gli danno un’espressione tristissima anche quando è felicissimo: con lui penso che riuscirei a ricavare interessanti redditi esentasse. Alcuni fobici invece hanno una patosensibilità esagerata a causa della loro paura del dolore: la morte, le catastrofi ecc. sono ciò che fa scattare la patosensibilità. Non per un reale interessamento al soggetto che subisce il dolore (altrimenti sarebbero patosensibili idealisti), ma per l’inconscia domanda: “e se ci fossi stato io al suo posto?”.

Il patosensibile ipocrita spesso elimina vigliaccamente la vista del dolore (perché così può continuare a credere che la sua occasionale commozione di fronte a una vicenda triste che non può eliminare sia alta sensibilità d’animo), lo fugge. Non tollera il sangue, la morte, gli dà immensamente fastidio sentire parlare di un funerale o di una malattia incurabile. I media questo lo sanno benissimo e per catturare questa parte della popolazione costruiscono storie che strappano lacrime perché ormai dalla televisione e dai giornali non si può sfuggire. Così facendo, però, ipocrita fa sì che l’informazione discrimini il dolore in dolore vendibile (quello che fa più audience) e dolore non vendibile. La retorica serve poi per foraggiare la patosensibilità degli ascoltatori. Vi siete mai chiesti perché nell’elenco dei morti si differenzia spesso il numero dei bambini e delle donne? Perché sembrano più indifesi e colpiscono maggiormente il patosensibile. Sono “innocenti”. Perché forse un ragazzo di 18 anni che è rimasto vittima di una bomba mentre andava a trovare la sua ragazza non era innocente? Si dice: “hanno una vita davanti”. Forse che un uomo adulto di 25 anni non ce l’ha?

Alcuni patosensibili ipocriti sono tali anche nel bene: paesi interi che brindano perché uno sconosciuto (magari il riccone del paese) ha vinto al Superenalotto. Ma perché si deve brindare? Donne in lacrime quando vedono uscire una sposa da una chiesa. Ma perché si deve piangere di commozione? Magari si sono sposati perché lei è incinta, lui ha già l’amante e fra due anni divorzieranno…

La diagnosi differenziale

Difficile confondere il patosensibile con altre personalità perché la definizione ha un campo d’azione (il dolore) che non interagisce con le altre personalità. Come spiegato nella descrizione delle tipologie, è possibile che la patosensibilità sia associabile più frequentemente ad altre personalità critiche che ad altre, ma non si deve commettere l’errore di pensare che queste personalità portino necessariamente con sé una certa patosensibilità (fra l’altro perché le personalità del Well-being non sono dipendenti): esistono deboli patosensibili e altri no; mistici patosensibili (un missionario che sacrifica la sua vita per non abbandonare la sua missione e i suoi malati durante una rivolta) e altri no (una suora di clausura) ecc.

La qualità della vita

Gli idealisti vivono bene o male a seconda del loro carattere: gli ottimisti profondono infinite energie nella lotta al male e questo li appaga; i pessimisti vedono la loro vita avvelenata dal fatto che il male continua a esserci, nonostante i loro sforzi. Gli idealisti possono avere un mondo dell’amore molto vuoto; è questa situazione che li spinge verso il mondo dell’indifferenza piuttosto che a cercare di riempire il proprio mondo dell’amore con affetti profondi e stabili.

Il patosensibile idealista che è schifato dall’egoismo presente nel mondo dovrebbe riflettere: vede egoismo e menefreghismo dappertutto; ma se gli uomini sono così “cattivi”, che senso ha salvarne? È proprio certo che quelli che salverà gliene saranno grati e riceverà quell’amore che cerca? Oppure, come gli altri, non faranno altro che usare la loro forza ritrovata per scannarsi a vicenda? In realtà, le cose non sono così buie, stanno a metà strada tra l’egoismo e l’utopia del patosensibile.

La qualità della vita degli ipocriti è determinata dai loro rimanenti pregi/difetti. La patosensibilità è una bomba che può esplodere a seconda delle vicende personali. Del resto pensiamo a come popoli diversi affrontano il rito della morte. Ricordiamo le preficae romane, donne pagate perché ai funerali piangessero, si strappassero i capelli e gli abiti, simulassero insomma dolore. Ancora oggi, da noi esiste l’assurda equazione che si soffre quanto più si piange. Presso altri popoli, il funerale è addirittura una cerimonia con cibo e musica.

Pensiamo a come si affronta tradizionalmente una malattia incurabile. E pensiamo come la affronta un medico come Patch Adams. Chi ha visto il film sa che il sorriso, e non la disperazione, dà forza e dignità.

Il patosensibile spesso non fa che mettere delle pezze al dolore. Essere distaccati dal dolore non significa non agire, significa semplicemente avere la forza di rimanere lucidi e operare al meglio. Quindi

azione, non disperazione.

E l’azione non può essere caoticamente individuale. Come non ci si può sostituire alla polizia per far trionfare la giustizia, così non ci si può sostituire alle istituzioni per far trionfare la solidarietà. Può sembrare assurdo avere fiducia nelle istituzioni, come duecento anni fa poteva sembrare assurdo averla nella legge. Ma la civiltà non fa nessun passo avanti se non ci si impegna a far funzionare meglio i governi anche dal punto di vista della solidarietà. Personalmente penso che non abbia senso un’azione che non sia politica; chi vuole risolvere problemi come la fame nel mondo, la povertà, l’emarginazione, deve fare pressione sulle istituzioni affinché questi problemi siano affrontati alla radice, affinché i Paesi ricchi aiutino quelli poveri, affinché cultura e progresso arrivino a tutti; del resto in un regime democratico il voto è lo strumento migliore per eleggere chi promuove interessi che ci stanno a cuore. Azioni individuali come adozioni a distanza (con una cifra che spesso non è che un centesimo di quello che si spende in lussuosi vestiti) o euro inviati con SMS in occasioni di catastrofi varie non sono che un modo di tacitare la propria coscienza “perché non si ha tempo” di fare di più.

Il test per il patosensibile

In genere il patosensibile offre una profonda resistenza al cambiamento. Per cercare di farlo riflettere, un semplice test.

Supponiamo che sia psicologicamente accettabile che si soffra per il dolore di uno sconosciuto. Quindi normale che di fronte a una tragedia in televisione si soffra. Però non esiste solo la televisione. anche i giornali nazionali danno altre notizie tristi; giusto e normale soffrire anche per loro. Bene. Passiamo ai giornali locali che amplificano ulteriormente l’insieme delle notizie drammatiche.

Se il nostro patosensibile non si è ancora suicidato (“nel mondo c’è troppo dolore”), facciamogli una proposta. Appena arriva una notizia triste dagli ospedali, dalla polizia, dai comuni cittadini, non solo del suo Paese, ma di tutto il mondo, gli inviamo un sms con i dettagli.

Per coerenza, non potrà spegnere il telefono e incomincerà a ricevere sms. Anche in questo caso, a un certo punto, se non si sarà suicidato, sbotterà in un “ma basta! Lasciatemi vivere la mia vita!”. Ignorerà il dolore. Esattamente il comportamento di chi, quando c’è una tragedia in televisione, non essendo patosensibile, la accoglie come una notizia, ma senza coinvolgimenti emotivi. E allora perché non farlo da subito?

Egoismo e patosensibilità

patosensibileQual è la differenza fra l’egoismo e il non essere patosensibili? Avere un’interpretazione corretta dell’altruismo, dove i valori sono tre e quello intermedio è quello equilibrato: aiutare le persone per quanto ci danno per la qualità della nostra vita: se si dà di meno si è egoisti, se si dà di più nei confronti del mondo neutro si è patosensibili (altruismo sociale; il caso del dare di più nei confronti del mondo dell’amore riguarda altre personalità critiche, non la patosensibilità).

Spesso l’egoista ha un mondo dell’amore vuoto, non ama nessuno al di fuori di sé o, al più, usa pochissima bontà nel suo mondo dell’amore. L’equilibrato invece ha un mondo dell’amore ricco, contenente diverse persone cui dimostra il suo amore con le sue azioni.

La vera soluzione – San Francesco e Madre Teresa di Calcutta sono spesso citati come esempi ideali cui l’uomo dovrebbe tendere. Ma chi vorrebbe una vita come la loro? Certo è facile avere degli alibi (“ho famiglia, come faccio a spogliarmi di tutto?”; alibi che curiosamente tirano sempre in ballo il proprio mondo dell’amore e un posizionamento puramente soggettivo sul segmento dell’egoismo), ma, anche se si rimuovessero gli alibi, pochissimi farebbero cambio. E allora perché non dirlo chiaramente che quelli non sono affatto esempi da imitare?

Molto probabilmente perché la patosensibilità vuole una soluzione e, non riuscendo a trovarla, si rifà sempre ai vecchi condizionamenti.

In realtà la soluzione esiste e si chiama ola (onda) dell’amore. La prima volta uso il termine spagnolo perché rispetto a quello italiano rende meglio (fare la ola) il propagarsi dell’effetto. Supponiamo che ognuno di noi definisca il proprio mondo dell’amore, cioè le persone che migliorano la qualità della sua vita. Il mondo di Tizio è in parte sovrapponibile al mondo di Caio, ma messi assieme fanno un mondo più grande, spesso molto più grande.

Immaginiamo ora che l’operazione si estenda come una grande onda a tutti gli uomini. Cosa accadrà? Che ognuno di noi, a meno di non essere il peggior criminale o una persona assolutamente impossibile, sarà compreso nell’insieme globale. Se tutti si adoperassero a far vivere bene chi è nel proprio mondo dell’amore, ecco che tutto il mondo vivrebbe meglio.

Il nostro scopo non è quindi di fare generici propositi di bontà e di santità e di amare (a parole) tutto il mondo, ma è quello di amare al meglio il nostro mondo dell’amore e di farci amare. Se tutti realizzassero questo scopo, l’onda dell’amore travolgerebbe il mondo.

Il vero (vero perché concreto, fattibile, non penalizzante) altruismo passa attraverso quattro stadi, gli ultimi tre dei quali rappresentano la bontà:

  • avere un mondo dell’odio vuoto;
  • costruire il nostro mondo dell’amore;
  • gestirlo al meglio, dando amore a chi vi appartiene;
  • insegnare agli altri come implementare i primi due stadi.

Chi li ha percorsi capisce che

aspirare alla santità è insulso, essere buone persone è il massimo dell’umanità.

L’utopia – La differenza fra l’onda dell’amore e la soluzione del patosensibile idealista è sostanzialmente nella concretezza. Anche il patosensibile può sostenere che la soluzione dell’onda è utopistica, ma nessuno può mettere in dubbio che lo è molto meno che pretendere che tutti si vogliano bene e che i cattivi e le sofferenze non esistano più. La sostanziale differenza è che al patosensibile idealista interessa intimamente solo una società ben fatta, senza ingiustizie, perfetta; a chi è concreto interessa soprattutto migliorare la società attuale, un obiettivo realistico, non utopistico.

La solidarietà – Tutti dovremmo trovare intollerabile la sofferenza altrui; è possibile farlo senza diventare patosensibili? Sì. Per evitare di diventare un idealista pratico (e distruggere la mia vita) e per evitare l’ipocrisia dell’idealista teorico ho proposto la solidarietà come sentimento sociale. Non vedo altre soluzioni intelligenti. Io e tante altre persone abbiamo un mondo dell’amore ricco, perché dovrei trascurarlo per dare ogni giorno (se lo faccio saltuariamente divento un teorico piuttosto ipocrita) spontaneamente (cioè al di fuori della mia professione) qualcosa di tangibile al mondo neutro?

Psicologi e patosensibilità

Proposi il concetto di patosensibilità nel 2003. Finalmente oggi anche alcuni psicologi incominciano ad apprezzarlo. Il concetto esprime in modo analitico e razionale ciò che anche altri (invero i più coraggiosi, senza timore di andare controcorrente) hanno espresso semplicemente dicendo che “non si deve essere troppo empatici”.

Per esempio, secondo lo psicologo di Yale, Paul Bloom, il mondo ha bisogno di un po’ meno empatia (intervista alla Boston Review, settembre 2014), in contrasto con l’affermazione di Barack Obama sul “deficit di empatia”.

Bloom ci rimanda all’economista Thomas Schelling: “se una bambina di sei anni con i capelli chiari ha bisogno di qualche migliaio di dollari per sottoporsi a un intervento che prolungherà la sua vita fino a Natale, arriveranno fiumi di donazioni. Se si viene a sapere che senza un aumento dell’IVA gli ospedali del Massachusetts non avranno abbastanza fondi e questo provocherà un leggero aumento dei decessi evitabili, nessuno verserà una lacrima”.

Bloom continua citando le ricerche che mostrano che un eccesso di empatia può anche danneggiare chi la prova: è stato dimostrato che a volte provoca esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri.

Secondo Bloom, anziché essere empatici dobbiamo essere freddi e razionali: un malato che si sta sottoponendo a una cura per il cancro non ama l’eccesso di empatia da parte dei medici, ma “preferisce quei dottori che sono calmi quando lui è ansioso, fiduciosi quando lui è incerto”.

Insomma, come spiega il Well-being, azione, non disperazione.


 

I COMMENTI E LE MAIL

Il test

Chi vuole sapere se la sua patosensibilità supera lo soglia di pericolo (se cioè può penalizzare la sua vita) può cimentarsi nel Gioco della Vita. Un test molto semplice e più rapido è offerto da un servizio televisivo che si ripete spesso ogni estate. Immaginate questo scenario.

Su una spiaggia affollata (quest’anno è successo a Mondello) un uomo ha un malore e muore; il bagnino lo copre alla meglio nell’attesa dell’arrivo della Polizia. Dopo pochi minuti la spiaggia torna alla normalità, il corpo giace coperto, mentre i turisti prendono il sole, fanno il bagno, due ragazzi si scambiano effusioni a qualche decina di metri dal cadavere. La sera, una giornalista indignata descrive la scena commentando le immagini con dure parole di condanna per l’insensibilità di tutti coloro che hanno continuato come “se niente fosse” (già Pirandello aveva descritto qualcosa di analogo nella novella Nell’albergo è morto un tale).

Domanda: in percentuale quanta ragione ha la giornalista? Prima di continuare la lettura, datevi una risposta.

Prima di dare la risposta, proviamo a generalizzare il suo approccio. Come giornalista del telegiornale, sa che ogni sera il Tg ci sforna diverse notizie dove la morte, la cattiveria e i peggiori istinti umani la fanno da protagonisti. Quindi sarei insensibile, se smettessi di ridere e magari dicessi a mia moglie “guarda, stasera proprio non me la sento di scherzare, non hai visto cosa è successo?”. E così ogni sera. Probabilmente mia moglie mi inviterebbe ad andare da uno psicologo.

Come dite? Un conto è vedere le immagini in tv di una vicenda successa a 100, 1.000 km di distanza e un conto è avere il morto a 10, 20, 50 m? Ma non è ipocrita pensare che la distanza sia il fattore eticamente discriminante? Se muoiono mille immigrati su un barcone, che problema c’è? Sono morti a oltre 1.000 km da me!

In realtà, il patosensibile non sa dare una spiegazione coerente delle sue emozioni che lo dominano totalmente, il suo umore è in balia di ciò che gli accade attorno. Invece, il comportamento coerente è di valutare la situazione in base al proprio mondo dell’amore e di provare sentimenti coerenti con esso. La notizia di una strage può colpirci per le ricadute che può avere sulla nostra vita e su quella dei nostri cari (per esempio una strage terroristica), ma sono riflessioni pratiche, non emotive.

Tornando al test, la risposta corretta è zero. Se avete risposto con una percentuale inferiore al 30% siete nella norma, ma se la percentuale è superiore avete ottime chance di essere patosensibili, probabilmente condizionati dal voler apparire buoni e umani a tutti i costi.

 

Bontà ipocrita (gennaio 2010)

HaitiIl terremoto di Haiti  ha riproposto molti luoghi comuni sulla solidarietà.

Rockstar, attori, sportivi si muovono per soccorrere gli haitiani. Nobile gesto, se non fosse abbastanza sospetto. Agli open di Australia otto tennisti ai vertici mondiali hanno giocato doppi di esibizione raccogliendo 185.000 dollari, cioè 15.000 euro a testa. Geniale: sono stati osannati dai loro fan per la loro estrema solidarietà, si sono divertiti un paio d’ore, hanno fatto pagare gli altri e non hanno sborsato un euro: perché non donare 15.000 euro in modo anonimo (Matteo, 6,3: Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà)?

Anche il mondo della moda si mobilita e Roberto Cavalli ci fa sapere che gli orfani di Haiti li adotterebbe tutti. Peccato che poi in quel mondo vengano buttati tanti di quei soldi… L’importante è però apparire buoni. Che affarone, se mandando un euro mi ripulisco l’anima!

Già, le adozioni. Andiamo controcorrente. Gli appelli dei media ad adottare bambini haitiani sono, a mio avviso, patosensibilità pura. Tutti sanno che milioni di bambini vivono in condizioni disumane, e non solo nei Paesi del Terzo Mondo (basta pensare a quelli che quotidianamente combattono per sopravvivere nelle favelas brasiliane). Se una coppia aveva deciso di adottare un bambino, non c’era certo bisogno degli appelli per convincerla. Altrimenti, l’appello diventa un condizionamento devastante per tutti coloro che vengono sopraffatti dalla patosensibilità: come può una coppia pensare di essere saggia e decidere emotivamente l’adozione di un bambino solo per un appello televisivo fra l’altro decisamente fuorviante? Perché fuorviante? Perché tutte le interviste sono andate in onda monche. Chi conosce l’italiano sa che, se uso il condizionale, esprimo solo una parte del mio pensiero; la maggior parte degli intervistati ha usato questa frase: “io un bambino lo adotterei subito…”, sottintendendo un “ma non posso perché ecc.”. L’intervistatore si è ben guardato dal continuare chiedendo “e allora perché non lo fa?”, per non rompere il clima di utopistica solidarietà che si era creato.

Il Well-being è per la solidarietà sociale e non per la solidarietà di chi vuole apparire buono a parole. Perché, che io sappia, nessun politico ha proposto una tassa sul 2% del reddito (o qualcosa di equivalente, a seconda della propria visione economica della società) in favore degli orfani di Haiti? Troppo impopolare, meglio continuare a lasciare che ognuno trovi il modo più comodo per apparire la migliore persona del mondo. Senza esserlo, ovviamente.

Lo tsunami (dicembre 2004)

tsunamiOltre dieci anni fa il terribile tsunami che nel Pacifico uccise oltre 400.000 persone. Ebbene, nemmeno un mese dopo l’evento, sul maggiore quotidiano italiano, il Corriere della Sera, nessuna pagina, nessuna riga!!! Tanti articoli frivoli (rispetto alla tragedia), ma nessuna storia, nessun aggiornamento. Possibile che il dolore laggiù fosse  cessato? O, non vedendolo, i patosensibili (per sopravvivere si erano stufati di piangere e pensavano a qualcosa di più leggero) si illusero che tutto fosse tornato come prima?

Forse andò meglio in televisione? Telegiornale serale su RAI 1 del 23 gennaio: parole sull’Asia: zero! Si noti che non ho scelto due casi favorevoli, ma i primi due che allora analizzi.

Il patosensibile (quello ipocrita che rappresenta sicuramente la maggioranza dell’insieme) è molto “sensibile”, ma si stanca presto del dolore e ha bisogno di nuove storie.

 

Pistorius

 La vicenda di Oscar Pistorius è un grande esempio di patosensibilità. Per approfondire si veda l’articolo sul personaggio (Oscar Pistorius).

 

Distaccati dal dolore

Caro Roberto,

ho letto con interesse le tue risposte alla vicenda delle due Simone; per quanto io possa essere d’accordo sulle tue conclusioni sulla loro psicologia, non lo sono completamente con le tue critiche verso i “patosensibili”. In particolare mi sono rimaste impresse queste tue frasi: “se le avessero sgozzate o uccise nel più barbaro modo, avrei preso atto della situazione, avrei assimilato l’informazione ma senza emozione”, “se gioissi o fossi triste per qualcosa che accade a persone che nemmeno conosco, sarebbe la fine”.

Il messaggio che percepisco leggendo i tuoi pensieri è quello di promuovere una totale autonomia e distacco dell’uomo verso i dolori di chi non gli è vicino, escludendo sentimenti quali compassione e empatia verso “gli estranei”. Io trovo che con il tuo messaggio rischi di diffondere cinismo e totale indifferenza verso i rapporti sociali, mentre, visti i tempi che corrono, penso che sarebbe meglio un po’ più di interesse verso la solidarietà e cooperazione verso gli altri per evitare l’ulteriore isolamento delle persone, la spietata concorrenza, il logoramento progressivo del tessuto sociale e della collettività.

Ti racconto un episodio capitato a una mia amica questa estate a Bologna e colgo l’occasione per chiederti cosa ne pensi. Lei stava scendendo dei gradini verso la strada, è scivolata e sbattendo violentemente contro il marciapiede, ha iniziato a sanguinare dalla testa e da un braccio. È capitato in una strada trafficata e, chiedendo aiuto con vari cenni e urla, ha visto tirare dritto più di un centinaio di macchine senza che nessuna di queste si fermasse. Dopo ben 10 minuti (era agosto) finalmente un passante le è corso in aiuto; al pronto soccorso ha poi scoperto di essersi rotta l’omero ed alcune costole. Che ne pensi di chi ha “tirato dritto”, non li biasimi solo perché non avevano nulla a che fare con quella poveretta? Se un dolore altrui non ci coinvolge emotivamente, non dovremmo cercare di stare un po’ più attenti cercando di ascoltarlo? Penso che ne avremmo da guadagnare tutti.

Quello che consigli è di posporre razionalmente il sentimento alla ragione, sempre e comunque quando hai gli elementi per farlo; non pensi che sia meglio considerare un equilibrio tra mente e cuore piuttosto che limitare con la ragione quest’ultimo?

Mi piacerebbe avere un tuo commento su questi argomenti, ma soprattutto sapere se ho male interpretato le tue conclusioni. Ciao, Piero.

Essere distaccati dal dolore non significa non agire, significa semplicemente avere la forza di rimanere indifferenti perché chi è colpito dal dolore è come dici “un estraneo”. Se hai letto La felicità è possibile, sai che definisco tre mondi: quello dell’odio (sperabilmente vuoto), quello dell’amore (sperabilmente ricco di persone a noi vicine) e quello dell’indifferenza (che con parole tue potremmo definire “degli estranei”). Verso questo mondo non si può essere coinvolti emotivamente, ma ti ripeto nulla vieta di agire. Il patosensibile è colui che “soffre con l’altro”. Scusami, ma non vedo il motivo di questa sofferenza. Anzi, come ho spiegato, se è giusto soffrire ogni volta che si vede dolore, allora la nostra vita è dolore e la felicità è impossibile. Mi sembra banale.

L’esempio che porti è illuminante. Le persone che non si sono fermate sono semplicemente egoiste. Mi è già capitato di trovarmi in situazioni simili e ho soccorso diverse persone. Non ho perso un attimo, ho tranquillizzato la persona e ho chiamato l’ambulanza. Tutto questo senza lasciarmi coinvolgere emotivamente. È così difficile da capire? Agire non è sentire. La compassione e l’empatia verso gli “estranei” a mio avviso definiscono il patosensibile che fra l’altro annega nel suo dolore, spesso senza essere minimamente d’aiuto (continuando l’esempio, magari il patosensibile sviene alla vista del sangue della persona). Compassione ed empatia non sono necessarie per risolvere la situazione e dal mio punto di vista contano solo le azioni.

Tu dici: non pensi che sia meglio considerare un equilibrio tra mente e cuore piuttosto che limitare con la ragione quest’ultimo?

L’equilibrio fra mente e cuore non esiste per il semplice fatto che se chiedo a chi lo perora di spiegarmi come si fa a crearlo non sa che pesci pigliare. In realtà significa solo “giustificare” certi atteggiamenti emozionali; in altri termini, un po’ di sentimento non guasta. Una visione molto poco precisa della realtà perché non si hanno elementi per usare correttamente ora il cuore ora la ragione. Come ho già spiegato, la ragione limita il cuore solo per evitargli errori madornali, che avvelenano la vita. Poi c’è massima libertà di sentire.

Uso il tuo esempio per spiegarmi meglio. Supponiamo che la tua amica, anziché rompersi l’omero, fosse stata colta da shock anafilattico per una rara allergia. Stramazza al suolo perché la gola si è ingrossata e non riesce più a respirare. Passo di lì, vedo che nessuno si ferma. La mia cultura medica è tale che capisco la situazione; valuto che posso chiamare l’ambulanza (5% di probabilità di sopravvivenza, arriverà troppo tardi) oppure posso praticare una tracheotomia con un temperino che ho in tasca. Non l’ho mai fatto, non sono medico, ma è abbastanza semplice, diciamo che le possibilità di salvezza salgono al 40%. Se la persona appartiene al mio mondo dell’indifferenza chiamo l’ambulanza (in caso l’operazione non riuscisse, andrei infatti incontro a guai a non finire: ecco che uso la ragione per evitare un errore madornale), se appartenesse al mio mondo dell’amore rischierei, costi quel che costi (il perdere la persona che amo è immensamente più grave rispetto ai guai che rischio).

Ti chiederai come sia possibile essere sempre così razionali. I problemi della vita nascono dal non trattare razionalmente proprio i dettagli. Dal lasciarsi condurre una volta dal cuore e uno dalla ragione, così a caso o come tira il vento.

Se sei triste 24 ore al giorno

tristezzaLa mail seguente vuole mostrare come capire fino in fondo le implicazioni del Well-being non sia immediato e che molto spesso chi legge le pagine del sito le legge in parte “solo per darsi ragione”, senza verificarle spietatamente con la propria situazione. Sono sicuro che Isa condanna la patosensibilità verso le persone, ma, come si suol dire è caduta dalla padella alla brace.

Oggi sul giornale ho letto di una strega di 60 anni che ha quasi ucciso il suo cane a badilate perché aveva un tumore e poi l’ha seppellito ancora vivo finché una ragazza non l’ha salvato e ha denunciato la vecchia megera. Mamma mia, quando sento queste notizie mi viene uno sconforto perché mi rendo conto che il mondo non potrà mai migliorare… i mostri esistono ed esisteranno sempre, ma io soffro perché nel mio cuore sento che sarebbe meglio se non esistessero e non mi do pace se la società li lascia a piede libero, così continuano a fare del male indisturbati. Isa.

La patosensibilità non è mai corretta. Il tuo dolore per ciò che capita ai cani in generale è patosensibilità: a te capita con i cani, ad altri, molto frequentemente, capita con gli esseri umani. Pensa a tutti quegli esseri umani che soffrono nel mondo, non per colpa loro, ma per colpa di altri. E allora che facciamo?

a) Siamo tristi 24 ore al giorno.

b) Ignoriamo gli uomini con la scusa che sono stupidi, ma poi ci ributtiamo sugli animali (come fai tu), dimenticando che asserire che “tutti i cani sono buoni” è equivalente alle affermazioni di chi sostiene che “ogni uomo è buono, ha un’anima ed è da salvare”. Come per gli uomini, ci sono cani buoni e cani cattivi, cani sensibili e cani insensibili, la mia esperienza mi dice questo. E penso di essere imparziale, visto che in generale amo moltissimo i cani. A molti sembrano tutti buoni come agli occhi di molti tutti i bambini sembrano innocenti (ma si dimenticano che molti di quei bambini, la stragrande maggioranza purtroppo, per loro scelta, diventeranno adulti di scarso spessore).

c) Non so se hai letto La felicità è possibile e conosci i tre mondi (amore, neutro, odio). Non si può amare tutto il mondo, per cui cerco di amare al meglio chi è nel mio mondo dell’amore. Chi ne è al di fuori è come se fosse in un altro mondo. In questi giorni mi ha suonato alla porta uno che voleva parlare delle cose scioccanti che accadono nel mondo. L’ho liquidato gentilmente dicendo semplicemente che io non sono affatto scioccato. Mi informo, conosco, ma è saggio capire che l’aspettativa di un mondo senza dolore, morte, cattiveria ecc. è assurda. è la stessa aspettativa di chi compra un biglietto della lotteria e pretende di vincere perché quei soldi gli servono proprio, perché avrebbe diritto a una vita migliore per la sua famiglia ecc.

In fondo la nostra vita ha senso anche perché il mondo non è perfetto. Sul fatto che non migliori non è vero perché se guardi come si viveva 100, 200, 1.000 anni fa il cambiamento in meglio è evidente. A me basta partecipare a un mondo che migliora lentissimamente e fare in modo che il “mio” mondo dell’amore sia bello, magari contribuendo a migliorare quello neutro parlando con la gente, convincendo uno su mille, diffondendo principi moderni. Quello che scrivi (…sarebbe meglio se non esistessero e non mi do pace se la società li lascia a piede libero, così continuano a fare del male indisturbati…) sa troppo di “giustiziere della notte”, un concetto violento che non fa certo andare avanti la società. Premesso che molti resoconti giornalistici sono ritoccati (per esempio quello del cane malato di tumore che andava a trovare in ospedale il padrone ammalato pure lui di tumore e che poi sarebbe morto il giorno stesso della morte del padrone, storia strappalacrime smascherata mesi dopo come una grande panzana) e che per giudicare occorre conoscere i fatti, evitando di mettere tutto il bene da un parte e il male dall’altra (come nella vicenda della rumena assassina), bisogna ricordare che esistono le leggi; compito della società è di farle rispettare (giusta la denuncia della ragazza, ma pensa se le avesse sparato, passando automaticamente dalla parte del torto!) e applicare. Se si ritiene che le leggi siano troppo blande, ci si deve dar da fare per cambiarle, non pretendere che sia applicata la “nostra” legge.

Cani di razza?

Dopo 3 anni di casa mia è giunto il momento di prendermi un cane, il cane che ho sempre sognato, il jack russell.

Quello che più mi sconcerta e un po’ mi butta giù è la faccia e le parole di amici e conoscenti quando sentono che voglio un cane di razza dicono “eh….ma con tutti i cani abbandonati che ci sono al canile, tu al solito fai il figo e ti prendi il cane di razza…”.

Non hanno tutti i torti in effetti, ma in tutti questi anni io e i miei abbiamo recuperato non so quanti cani dalla strada e dal canile. Ora non voglio con questo mettere a tacere la mia coscienza, ma ammetto che quando gli amici dicono questo un po’ mi fermo a pensare.

Che fare ??

Scegliere un cane di razza (o al canile, ma dopo lunga osservazione*, non il primo che capita solo perché è buffo o fa pena) probabilisticamente vuol dire avere certi comportamenti, interazioni di un certo tipo con l’uomo ecc. Se io e il cane dobbiamo legare, è ovvio che si deve scegliere un cane “simile” a noi e al nostro modo di vivere (infatti un violento sceglie spesso un cane di una razza socialmente pericolosa) perché ciò aumenta la probabilità che sia “favoloso”.

* si deve cioè verificare il carattere del cane, i suoi pregi e i suoi difetti. Altro dato fondamentale è l’età: Personalmente se scelgo un cane voglio che viva al più a lungo possibile con me, quindi non sceglierei mai un cane adulto o di una razza (come i boxer) a vita media breve.

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