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Competitività

La competitività può essere definita in vari modi, alcune sue manifestazioni sono positive, altre negative.

  • Caso negativo – La propensione a superare gli altri per ottenerne dei vantaggi di qualsivoglia natura.
  • Caso positivo – La propensione a misurarsi con gli altri per avere una reale dimensione delle proprie capacità.

Molte persone accettano con fatica e con lunga riflessione la mia posizione sul fatto che l’autostima non si deve basare sui risultati, ma sui valori morali ed esistenziali (oggetti d’amore); poi ritornano in crisi perché non capiscono perché in questo mondo si debba comunque essere “competitivi”.

Consideriamo un caso sportivo, una gara di corsa. Nel primo caso l’atleta sgomiterà, cercherà di rintuzzare ogni attacco, visto come un’offesa alla sua persona; nel secondo, in caso di contatto con gli altri, gli “basterà” stare con il gruppo, a volte non risponderà a improvvise accelerazioni (che sa essere suicide) ecc.: nessuna violenza, gli altri servono per capire quanto vale nella corsa. Poiché la sua autostima non dipende dai risultati, se scoprirà di valere poco, poco male, cercherà di divertirsi lo stesso con il suo oggetto d’amore, magari attuando parallelamente strategie per migliorare (per esempio leggendo i libri sulla corsa di un certo Albanesi).

Chi ha ben compreso l’esempio capirà che avere una buona autostima è condizione necessaria per vivere bene, ma non è sufficiente. Cito sempre l’esempio di quando giocavo a pallone: ero veramente scarso e non toccavo palla (nel senso che nessuno me la passava perché l’avrei sicuramente persa); la mia autostima non ne risentiva, ma non è che mi divertissi molto e capii che dovevo migliorare oppure scegliermi compagni meno bravi (visto il mio livello, rimanevano solo quelli della squadra dell’ospizio del paese).

Stesso discorso vale per ambiti più seri. La competitività nel lavoro serve per misurarsi con gli altri e scegliere la strada giusta. La competitività non serve per fare carriera (per farla non è necessario avere la propensione a “schiacciare” gli avversari, magari con trucchi sporchi), gli altri “mi dicono” se posso o no aspirare a quell’ambito lavorativo. Se mi accorgo che i miei colleghi fanno in un’ora il lavoro che io faccio in otto ore, “forse” quel lavoro è sovradimensionato per le mie capacità (e non devo crearmi alibi tipo “il mio computer è più lento”).

Ricapitolando:

  1. La persona equilibrata sceglie la seconda “definizione” di competitività.
  2. Il violento o l’apparente scelgono la prima perché è nel loro DNA essere competitivi.
  3. Lo svogliato sceglie la prima come alibi per non mettersi in gioco, rimarcando il lato negativo della competitività.
  4. Il debole sceglie la prima perché tende ad attuare un compromesso, un armistizio. È quello che a un chilometro dall’arrivo ti chiede di che categoria sei per evitare di giocarsi un premio con una durissima volta finale.
  5. Alcuni patosensibili scelgono la prima e osteggiano la competitività come esempio di “danno al prossimo”.
  6. Molti sopravviventi si “adattano” alla prima definizione, usata anche per giustificare piccole scorrettezze con le quali sopravvivono in un mondo che non capiscono del tutto.
  7. Alcuni insofferenti, utilizzando la strategia della fuga, condannano la competitività perché tende a frustrare le proprie aspettative.

Competitività: il test.

Competitività

La competitività nel lavoro serve per misurarsi con gli altri e scegliere la strada giusta

Competitività e rischio cardiovascolare

Sulla relazione fra competitività e rischio cardiovascolare si dibatte ormai da molto tempo. Negli anni ’40 del secolo scorso, in seguito a studi condotti da Alexander Franz e Helen Flanders Dunbar, fu addirittura coniata una curiosa locuzione: personalità coronarica. Con tale espressione si voleva sottolineare come una determinata personalità potesse notevolmente influenzare lo stato di salute di un soggetto; in altre parole, si affermava che determinati stili comportamentali rappresentavano, come minimo, un forte fattore di rischio per lo sviluppo di alcune patologie. In particolare, alla fine degli anni ’50, Meyer Friedman e Ray Rosenman osservarono che i cosiddetti soggetti con personalità di tipo A* (type-A personality) erano particolarmente predisposti a disturbi di tipo cardiovascolare (ictus, infarto del miocardio, ipertensione arteriosa ecc).

Secondo Friedman e Rosenman i soggetti con personalità di tipo A sono persone caratterizzate da aggressività, impazienza, insofferenza, tensione muscolare, ipervigilanza, ostilità, elevata ambizione, eloquio rapido e tendenza a interrompere gli interlocutori, eccesso di competitività.

Si era altresì osservato che nei cosiddetti soggetti con personalità di tipo B (persone più riflessive, meno arrabbiate, pacate, rilassate, soddisfatte, o, per usare una sola parola, equilibrate) la predisposizione a problemi cardiocircolatori era decisamente più bassa.

Tutko (1988) suddivise le personalità di tipo A in due sottoclassi:

  • tipo A ostile (type-A-hostile)
  • tipo A controllato (type-A-controlled).

Tutko riteneva che fossero i soggetti della prima sottoclasse ad avere un più elevato rischio di incidenti di tipo cardiovascolare; le motivazioni esistenziali di questi soggetti sono caratterizzate da rabbia e ostilità, a differenza dei soggetti della seconda classe che, pur essendo mossi dall’ambizione, comunque amano quello che fanno. In questo senso quindi le motivazioni di questi ultimi soggetti sono meno “pericolose”, molto probabilmente perché generano un minor tasso di stress negativo (il cosiddetto distress).

Non tutti gli autori comunque concordano appieno sulla correlazione fra personalità di tipo A e rischio cardiovascolare. Uno studio del 1988 (Ragland e Bland) suggeriva che, perlomeno dopo un infarto, il rischio di morte improvvisa per cause cardiovascolari o quello di un successivo attacco di cuore, erano più bassi nei soggetti di personalità di tipo A che in quelli di personalità di tipo B, sottintendendo che la correlazione fra personalità di tipo A e rischio cardiovascolare non fosse poi così assodata.

Interessanti le conclusioni di uno studio di Friedman (1982) nel quale si affermava che il grado di sopravvivenza dopo un infarto era più elevato nei possessori di un animale. Secondo gli autori, ciò poteva essere dovuto al fatto che i possessori di animali hanno probabilmente personalità meno aggressive o dal fatto che, in un certo qual modo, gli animali riescono a moderare l’aggressività dei loro padroni.

Quando la competitività fa male

Personalmente ritengo che ci sia del vero nelle idee di Friedman e Rosenman, ma, come sempre, limitarsi a una classe statistica non ottimale (i genericamente competitivi) può essere fuorviante. A mio avviso, è necessario definire una competitività negativa, definendo anche un modo semplice di riconoscerla.

I moltissimi dati che ho accumulato sul mondo dello sport (dove la competitività è un concetto fondamentale) mi hanno permesso di proporre (2010) il concetto di discompetitività (associato al concetto di distress, lo stress negativo, dal greco dis, cattivo, morboso).

Come si scopre la discompetitività? Molto semplicemente studiando le reazioni di fronte alla sconfitta. Chi è positivamente competitivo accetta la sconfitta in modo equilibrato, spesso usandola come punto di partenza per una nuova pianificazione della sua attività. Chi invece ha una competitività negativa reagisce alla sconfitta con sentimenti esagerati: rabbia, frustrazione, cocente delusione, avvilimento ecc. Quanto più una sconfitta peggiora la qualità della vita di un soggetto, tanto più la sua competitività è negativa, è cioè un discompetitivo.

Provate il test per vedere se la vostra competitività è a rischio.

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* Friedman e Rosenman, due cardiologi statunitensi, ipotizzarono (1959) che esistesse una qualche relazione fra lo stato di salute dell’apparato cardiocircolatorio e le tendenze comportamentali delle persone. A seconda quindi delle tipologie caratteriali, suddivisero tali tendenze in tipo A e tipo B. Successive ricerche (Rosenman et al., 1970; Rosenman et al., 1975; Rosenman, Brand, Sholtz, & Friedman, 1976) riportavano che i disturbi cardiocircolatori avevano un’incidenza doppia rispetto ai gruppi di controllo.

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