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Kobe Bryant: quando si spegne una leggenda, lo stupore per un attimo ferma il cuore di chi l’ha amata

29 gennaio 2020 di Roberto Albanesi

Kobe Bryant

Kobe Bryant (fonte: www.thestar.com)

Quando ci lascia un personaggio famoso, i sentimenti di chi riceve la notizia dai media variano a seconda della sensibilità individuale e dal coinvolgimento che si ha con la figura scomparsa; si va dall’indifferenza al dolore, ma quando scompare una leggenda uno dei sentimenti dominanti è lo stupore. Ho scritto di getto il titolo di questo articolo ieri mattina, mentre mi stavo allenando. Solo più tardi, rileggendo il pezzo, mi sono accorto che fa eco ai ben più meritatamente noti versi dell’ode manzoniana (Il cinque maggio) sulla morte di Napoleone (così percossa, attonita/la terra al nunzio sta) che pure il Manzoni scrisse di getto quando apprese la morte del grande personaggio francese.

In questi giorni le tv ci hanno mostrato tante incredibili azioni di Kobe Bryant che forse anche chi non lo conosce (sempre riecheggiando il Carneade manzoniano: Bryant chi era costui?) e non sa nulla di basket ha avuto la curiosità di approfondire questo stupendo sport.

In una partita di calcio, se si è fortunati, si vedono 3-4 grandi numeri, mentre nel basket, soprattutto quando ci sono campioni come Bryant ogni azione può essere uno spettacolo.

Non è però solo per lo spettacolo che ritengo che il basket sia il miglior sport di squadra, ci sono altri due buoni motivi.

Il primo è che, pur essendo uno sport di squadra, si può praticare anche da soli. Imparai a conoscerlo piuttosto tardi, quando entrai nel mondo del lavoro (prima era stato il calcio la mia passione) e non avevo molto tempo; piazzai un canestro nel mio giardino e nei pochi momenti liberi tirare a canestro era uno straordinario modo di rilassarsi stando con sé stessi.

Più complesso il secondo motivo. Diventato abbastanza decente nel tiro, per caso conobbi altri ragazzi più giovani di me che lo giocavano, chi in oratorio chi in squadre minori. Ben presto nacque l’appuntamento del lunedì alla Casa dello Studente di Pavia, in cui ci davamo appuntamento dopo il lavoro, si formavano due squadre e si giocava fino al termine della prenotazione del campo, un’ora e mezza. All’inizio ero veramente scarso, ma ben presto diventai decente, tanto che partii nel quintetto base quando decidemmo di partecipare a un campionato minore. Di partite ne vincemmo poche, penso quatto o cinque, ma ogni volta festeggiavamo, anche la sconfitta, al bar Vittoria. In quegli anni capii perché il basket è il miglior sport di squadra; ricordo tanti compagni, ormai persi di vista, ricordo canestri assurdi, perché il basket è un po’ come il tennis, puoi essere una schiappa, ma può riuscirti, magari per caso, un gesto incredibile. E allora hai subito il compagno che ti ridimensiona, ironizzando sulla fortuna che hai avuto (“hai visto come ti sta guardando quel ragazzino? Sta pensando: io un canestro come quello non riuscirò mai a farlo!”). Ma non è questo il secondo motivo, in fondo in ogni sport ci può essere spettacolo, magari per caso o per bravura. Non ricordo il mio primo tiro da tre o la prima volta che sono andato in doppia cifra, ma una cosa la ricordo: il mio primo assist. Il termine è stato rubato negli anni ’80 al basket dal calcio, ma nel calcio è veramente vilipeso. Quando un calciatore segna un gol grazie a un assist spesso esulta senza nessuna attenzione per chi gli ha passato la palla. Nel basket no, per questo è un grande sport. Ricordo ancora quel giorno quando feci un passaggio lunghissimo a Giovanni che era scattato in contropiede, permettendogli di segnare un canestro facilissimo. Lui si girò e mi indicò con il dito indice a braccio teso. Giocammo ancora tante partite insieme, chissà dove è finito Giovanni, ma quel gesto lo ricordo ancora perché mi fece capire l’importanza della “squadra”. Se avete un figlio, fategli provare il basket, non importa se non ha il fisico e non diventerà un campione, ma imparerà tanto “dentro”. Non a caso un racconto che c’è nel sito per spiegare l’importanza della priorità dei problemi nella vita ha come sfondo un campo da basket: Palla fuori, campione dentro.

Quel campione poteva essere Kobe Bryant, anzi “può essere” Kobe, perché con le leggende non si usa mai il passato.

Pur non essendo un grande tifoso (ho sempre preferito fare piuttosto che assistere), allora tifavo per i Lakers, la squadra di Bryant, e avevo la loro maglietta; d’estate la uso ancora spesso, tutta sbiadita come quei ricordi di una vita che non se ne vogliono andare.

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