Nel XIX sec. Marx, Engels e altri avevano portato l’attenzione sul proletariato (classe sociale formata da chi possiede come ricchezza unicamente la prole). Oggi nei Paesi avanzati il proletariato, almeno stando all’etimologia del termine, di fatto non esiste più o riguarda una fascia strettissima della popolazione. Anche la frangia più povera, magari indebitandosi, ma ormai possiede comunque “qualcosa”. Si può dire che nella società esiste un continuum che parte dal basso (chi vive sotto la soglia di povertà) e passando attraverso una classe media molto diversificata economicamente parlando, arriva a quella quota percentualmente irrisoria dei superricchi: nel mondo ci sono circa 2.000 miliardari, ma con un patrimonio talmente grande che attualmente 42 persone possiedono la stessa ricchezza dei 3,7 miliardi di persone meno abbienti (fonte: Credit Suisse) oppure 61 miliardari possiedono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale.
Da questi dati appare sensato parlare di un nuovo proletariato, rinnegando l’etimologia di base e racchiudendo nella classe tutti coloro che comunque hanno “difficoltà economiche”, fra mutui, rate da pagare, difficoltà a far quadrare i conti a fine mese o sono semplicemente insoddisfatti del loro tenore di vita. Probabilmente almeno l’80-90% della popolazione.
Il titolo dell’articolo non fa riferimento al nuovo proletariato, ma a veri e propri schiavi. Il motivo è semplice: mentre i vecchi proletari avrebbero voluto uscire dalla loro condizione, i nuovi proletari accettano passivamente il loro stato, anzi, molti di loro, inneggiando a teorie economiche che sono state fatte a uso e consumo dei più ricchi, sostengono modelli sociali che, in cambio della loro libertà, danno loro benefit dei quali non sanno più fare a meno. Per questo motivo, teorie come la democrazia del benessere non fanno presa sulla gente, troppo preoccupata di perdere anche un solo euro, incapace di tradurre in ricchezza netti miglioramenti non economici della qualità della vita.
Molti non saranno convinti della definizione, ma esistono indicatori esistenziali inequivocabili che la supportano, soprattutto in coloro che non hanno coscienza della loro condizione. Analizzando la popolazione, si scopre che per educazione familiare e condizionamenti sociali, scelte personali (che spesso bloccano ogni capacità di cambiamento):
- Una grande percentuale della popolazione non ha passioni, oggetti d’amore da coltivare. Molti s’illudono che la famiglia, i figli ecc. possano esserlo, ma poi continuano a parlare di sacrifici per questi presunti oggetti d’amore. Un oggetto d’amore non comporta “sacrifici” perché la domanda che sorge spontanea sarebbe “e chi te lo ha fatto fare?” (la risposta unica e sensata è: i condizionamenti avuti). Solo chi vive con entusiasmo e senza sacrifici il rapporto con il partner, la genitorialità e i figli è effettivamente immune dalla schiavitù.
- Un’altra percentuale è conscia di quanto detto al primo punto, ma si rassegna e differisce la vera vita a “più tardi”: quando andrà in pensione, quando i figli saranno grandi, quando avrà fatto carriera ecc. Spesso il “più tardi” arriva solo quando è “troppo tardi” (a questo proposito, si veda un percorso classico, Il sopravvivente).
Entrambi gli insiemi si ricavano momenti di libertà con la strategia del carcerato: la vacanza diventa un momento per staccare, per ricaricare le pile o per vivere momenti indimenticabili, ben diversi dalla “noia” quotidiana; l’uscita settimanale al ristorante è una specie di ora d’aria in cui si incontrano amici, parenti ecc. Poi si ritorna nel proprio carcere fatto di ore di lavoro (spesso “un lavoro che piace”, ma allora perché sognare le ferie o i week-end?), di sacrifici imposti dai propri condizionamenti (per esempio, chi non ha oggetti d’amore si butta nel volontariato, almeno accresce la sua autostima). C’è chi cerca di motivare il carcere facendo presente che così si può permettere la casa grande, il macchinone, l’ultimo smartphone, i capi d’abbigliamento firmati: la rinuncia alla semplicità di vita diventa il meccanismo con cui si sopporta il carcere, dimenticando che ci si può permettere veramente una cosa quando è del tutto normale, sempre fattibile e non costa rinunce, debiti o altre negatività.
A questo punto, molti penseranno che ognuno sia libero di decidere per la propria vita e che gli schiavi non creino problemi a nessuno: in realtà, impediscono veri cambiamenti sociali, fra cui l’inserimento di indici di benessere al pari di quelli economici in una valutazione più sensata della qualità della vita. Per capirci, un modello economico che preveda di lavorare per 40 anni reggerebbe comunque se si modulasse su 35, (il 12,5% in meno), ma la maggior parte delle persone non accetterebbe un ridimensionamento economico del 12,5% perché in pensione non saprebbe cosa fare perché per tutta la propria vita non ha trovato nulla che si meritasse di amare e di coltivare.