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Quando la legge si allontana dalla giustizia

14 ottobre 2019 di Roberto Albanesi

legge giustizia

Il titolo può apparire quasi banale, visto che tutti conoscono fatti e processi dove il risultato è “ingiusto”. Non è però questo l’obiettivo dell’articolo. Va da sé che un processo può dare esiti anche sorprendenti per chi cerca giustizia per incapacità dell’accusa, bravura della difesa, cavilli ed errori, prove non schiaccianti ecc. Tutto ciò però rientra nel concetto di legge che peraltro non è del tutto univoco; per quanto ci si sforzi di avvicinarlo a quello di giustizia (secondo il giusnaturalismo, per esempio, i principi di giustizia sarebbero connaturati nell’uomo), resta sempre l’enorme complessità di accordare giustizia e vivere sociale, riuscendo a interpretare “correttamente” le infinite fattispecie, cioè i casi particolari di applicazione.

L’editoriale vuole invece focalizzare l’attenzione sui tanti casi in cui la legge ha fatto tutto per bene, arrivando a una sentenza allineata con quello “che si ritiene giusto”… però… Poi che accade? Che un organo successivo al giudizio di fatto svuota la sentenza di ogni valore, arrivando a clamorose ingiustizie.

Per esempio, ripugnante la decisione di dare i domiciliari al femminicida che ha soffocato fino alla morte la fidanzata; solo 57 giorni dopo l’omicidio e dopo la condanna in primo grado all’ergastolo a 30 anni. Il motivo: la rivolta dei carcerati che faceva temere per la sua vita e…  allora diamogli un premio in attesa della sentenza definitiva che magari arriverà fra molti mesi, fra ricorsi e controricorsi.

Ripugnante e assurda la decisione di chiedere gli arresti domiciliari per Giovanni Brusca, richiesta per fortuna bocciata dalla Cassazione. Assurda per la motivazione (“perché si è ravveduto”). Un qualunque organo può interrompere una pena con la semplice motivazione del ravvedimento, dimenticando che il perdono non fa parte della legge, secondo la quale il cardine è comunque l’espiazione della pena.

Ripugnante e assurda l’erogazione del reddito di cittadinanza all’ex-brigatista Federica Saraceni, un insulto aggravato anche dalle patetiche dichiarazioni del padre che avrebbe dichiarato “Che facciamo? Dobbiamo mandarla a fare la prostituta?” dimenticando che una prostituta non commette nessun reato e che comunque è mille volte più stimabile di una brigatista condannata a 21 anni e mezzo per l’omicidio D’Antona.

I casi sono innumerevoli, ma qual è la matrice comune? Il buonismo che pervade la nostra società, basata sulla patosensibilità e sul perdono, valori che vengono prima della giustizia. Un esempio parallelo. La morte dei due agenti a Trieste. In Francia (dove, in occasione, dei quattro agenti uccisi da un attentato islamico, Macron ha detto chiaramente che l’islamismo non è in linea con i dettami della Costituzione; sentite il discorso, non parla di terrorismo islamico – come ha invece fatto, traducendo erroneamente, la giornalista inviata del Tg2 –  ma proprio di islamismo) o negli USA l’assalitore sarebbe stato giustiziato sul posto dalle forze dell’ordine, non per vendetta, ma per giusta causa, esattamente come in guerra. Qui si tenta di catturarlo vivo, fatto salvo poi ritenerlo incapace di intendere e volere, dargli una bella pacca sulla spalla e magari, fra un po’ di tempo rimandarlo nella società civile.

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