La flat tax è un sistema fiscale non progressivo, basato su un’aliquota fissa, per esempio il 15 o il 20%, al netto di eventuali deduzioni fiscali o detrazioni.
Secondo i suoi fautori, favorirebbe il ceto medio che rappresenta una grande fetta del Paese, anche perché nulla vieta di renderla effettiva solo fino a un certo imponibile (per esempio il limite sociale di profitto di cui parleremo più avanti).
Secondo i suoi detrattori, favorirebbe i più facoltosi, non essendo progressiva con i redditi. Questa posizione potrebbe reggere teoricamente, ma non praticamente perché è abbastanza facile mostrare che in Italia una certa implementazione della flat tax esiste già (per approfondimenti). Inoltre, l’analisi dei detrattori si mostra piuttosto scorrelata con la realtà quando si vanno a studiare le conseguenze di una tassazione progressiva con aliquote troppo elevate per importi di reddito “normali”, come l’attuale tassazione dove la pressione fiscale supera abbondantemente il 40% senza che possa avvicinare nemmeno lontanamente i servizi dei Paesi scandinavi che pure hanno una tassazione elevata. Vediamo gli attuali problemi della nostra tassazione.
Innanzitutto, la progressione si ferma troppo presto: praticamente coloro che guadagnano 75.000 euro e quelli che guadagnano 10 milioni di euro hanno la stessa aliquota massima; ciò contrasta con teorie come quelle proposte dalla democrazia del benessere dove viene fissato un limite sociale di profitto (per esempio 500.000 euro) dove l’aliquota scatta automaticamente a valori molto elevati (per esempio il 60%).
Inoltre, l’attuale tassazione fa fuggire capitali e occupazione dal nostro Paese e allontana eventuali capitali esteri. Questo è l’aspetto che sfugge a chi osteggia la flat tax.
Si supponga, per esempio, che una società abbia un utile imponibile di 400.000 euro. In base alla tassazione italiana dovrebbe pagare qualcosa come il 50% circa, considerati tutti i balzelli diretti e indiretti. Il modo legale e molto più semplice per pagare meno tasse è aprire una filiale in un Paese dove la tassazione è inferiore. Non stiamo parlando di Amazon o di Google (che peraltro usano lo stesso sistema), ma di un’azienda che sta avendo successo nel proprio settore. Non stiamo parlando di andare in un lontano paradiso fiscale, accontentiamoci di andare in Svizzera. Oggi con i mezzi telematici aprire una filiale in Svizzera con personale (magari italiano) che opera sul posto ecc. è fattibile per molti settori merceologici: la filiale opererà come fornitore di servizi per la casa madre. Poiché l’utile viene comunque generato in Italia, la casa madre pagherà le tasse in Italia, ma potrà detrarre i “costi” della consociata svizzera, supponiamo 300.000 euro. In Svizzera la pressione fiscale è di circa il 20% (dipende dal cantone e da altri fattori), quindi ci sarà un risparmio di 90.000 euro perché la filiale pagherà tasse in Svizzera per 60.000 euro e la casa madre pagherà 50.000 euro (sui 100.000 rimasti di utile) in Italia. Morale: l’Italia avrà perso 150.000 euro di tasse e avrà fatto in modo che 60.000 di questi siano finiti nelle casse svizzere. Non solo, ma l’occupazione della filiale svizzera sarà a scapito dell’occupazione in Italia.
Ovviamente questa è una versione molto semplificata di quello che accade in realtà, ma i numeri sono impressionanti.
Come ricaduta della attuale tassazione italiana, se un’azienda tedesca vuole aprire una filiale con uffici perfettamente funzionanti, dove l’aprirà? In Italia? Oppure in Svizzera, Lussemburgo, Irlanda, Slovenia ecc.?
Con la flat tax si evitano quindi che i soldi “scappino” all’estero, che italiani vadano a lavorare per filiali estere e si favorisce l’arrivo di capitali stranieri in Italia, nonché la creazione di nuovi posti di lavoro per le filiali di case madri estere che nasceranno.
Certo, si potrà discutere sul bilancio fra vantaggi e svantaggi della flat tax, ma non considerare gli aspetti sopraesposti appare un esempio di palese ignoranza di quello che succede in altri Paesi dove la flat tax ha indotto indubbi benefici.