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Meno nati in Italia: le vere cause del problema

21 febbraio 2020 di Claudia Rastelli

figli per donna

Il tasso di fecondità è il numero di figli per donna; i dati riguardanti i vari Paesi differiscono spesso sia perché non si riferiscono allo stesso periodo (la lista delle Nazioni Unite è ferma per esempio al 2010), sia perché diverso è il modo di valutare la popolazione femminile in base alla fecondità. Così in Italia nel 2018-2019 si trovano stime che danno 1,50 figli per donna oppure 1,29 (Istat); per avere un raffronto, il dato medio mondiale è di 2,44 figli per donna (Kipp Texas) mentre, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, (periodo 2005-2010) i Paesi africani sono quelli con il maggior tasso: 7,19 figli per donna nel Niger, 7,07 nella Guinea Bissau ecc. Nei primi 16 Paesi solo due non sono africani, Afghanistan con 7,07 e Timor Est con 6,53.

Si deve però notare che in 6 anni c’è stato un rapido crollo: il CIA World Factbook mostra per esempio che in Niger si è passati a 6,62, in Guinea Bissau a 4,16 ecc. nella stragrande maggioranza dei Paesi, anche evoluti, il tasso è sceso o è rimasto invariato. Di seguito quelli con il tasso aumentato dal 2010 al 2016 di oltre il 10%:

  • Georgia da 1,23 a 1,54
  • Armenia da 1,39 a 1,62
  • Russia da 1,34 a 1,57
  • Romania da 1,30 a 1,64
  • Lettonia da 1,29 a 1,74
  • Ungheria da 1,28 a 1,53
  • Slovenia da 1,28 a 1,58
  • Lituania da 1,26 a 1,69
  • Slovacchia da 1,25 a 1,48
  • Ceca da 1,24 a 1,63
  • Polonia da 1,23 a 1,39
  • Ucraina da 1,22 a 1,35
  • Bielorussia da 1,20 a 1,73.

Come si vede, sono tutti Paesi del blocco comunista dove la riconquista della libertà sociale probabilmente ha reso più ottimiste le giovani donne; prova ne è che fanalini di coda del tasso di fecondità sono Hong Kong e Macao, rispettivamente con 0,97 e 0,91 figli per donna, che hanno perso l’indipendenza dalla Cina (dove il tasso è di 1,73 figli per donna) alla fine del XX sec.

Da questa prima analisi,

l’incremento della ricchezza deprime il tasso di fecondità, mentre la libertà sociale riconquistata l’aumenta.

Nei Paesi occidentali i due fattori precedenti sono di minore rilevanza, visto che comunque la ricchezza del singolo Paese aumenta/diminuisce di poco e la democrazia non è in discussione.

Alla base della tendenza negativa delle nascite ci sono due fattori fondamentali, uno esistenziale e uno economico.

Il fattore esistenziale è molto raramente citato, ma, a livello di coppia, gioca, più o meno consciamente, un ruolo fondamentale: fare figli non è detto migliori la qualità della vita. Molti sociologi lo hanno sostenuto, spesso contrastati dall’opinione corrente (ved. Figli e qualità della vita). Così nel mondo occidentale i condizionamenti familiari (i propri genitori che vogliono diventare nonni), sociali e religiosi hanno sempre meno peso, soprattutto sulla numerosità della famiglia: le coppie fanno figli sempre più tardi e spesso si fermano al primo.

Per capire il meccanismo del fattore esistenziale si può pensare all’analogia con la professione medica: molti medici lo fanno per missione, altri per motivazioni meramente economiche; fra questi estremi, altri professionisti lo fanno un po’ per missione e un po’ come attività sufficientemente interessante dal punto di vista economico. Analogamente, fare un figlio può essere una “missione” (si fa un figlio come oggetto d’amore) oppure lo si fa totalmente condizionati dai propri genitori/suoceri e dalla società: fra questi estremi c’è chi è spinto un po’ dall’uno e un po’ dall’altro estremo.

Nel mondo occidentale esiste una grande differenza fra i Paesi europei e gli Stati Uniti dove la natalità resta alta perché la famiglia numerosa è ancora oggi vista come un successo personale; avere una “bella” famiglia è un risultato importante, non importa poi se entrambi i componenti della coppia abbiano l’amante o i figli detestino i genitori. Basti pensare quanto conti per un candidato presidenziale “esibire” la moglie e i figli accanto a sé durante i comizi o in tv. C’è anche da dire che negli USA la religione è molto vissuta (nei tribunali campeggia ancora la scritta In God we trust) e serve come farmaco contro la fragilità dell’individuo, spesso stritolato da una società tutto sommato difficile, non certo orientata al benessere fra guerre e vita sociale molto competitiva. Ovvio che l’importanza della religione cristiana porti con sé un interesse primario per la famiglia e i figli.

Passiamo al fattore economico, secondo alcuni il vero responsabile del problema. Un’analisi semplicistica lega il tasso di fecondità agli aiuti in termini economici dati alle famiglie (bonus bebè, asili nido gratis ecc.). Premesso che tali aiuti non riescono a incidere granché sul fattore esistenziale, occorre comprendere che un figlio che viene portato alla laurea costa alla famiglia circa 250.000 euro per cui anche 10-15.000 euro di aiuti statali possono convincere solo chi superficialmente non valuta il problema nella sua interezza: se la famiglia ha difficoltà economiche farà comunque meno figli (per esempio uno anziché due per assicurare comunque il massimo possibile alla propria prole) oppure non ne farà.

Ma allora perché in alcuni Paesi come Francia (tasso di fecondità passato dal 2010 al 2016 da 1,89 a 2,03) o Svezia (da 1,80 a 1,85; ma in Norvegia il tasso è sceso da 1,85 a 1,71) il tasso sale di qualche zero virgola? Il punto è che, permanendo il costo di crescita dei figli, lì funzionano meglio servizi come scuola e sanità e il tasso di disoccupazione giovanile non è certo quello italiano: in sostanza,

non è la mancanza di aiuti alle famiglie che deprime il tasso di fecondità, ma è una situazione sociale più disastrata.

Che senso ha dare il bonus bebè quando i neogenitori si vedono il loro figlio disoccupato a vita?

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