Due avvenimenti di cronaca di fine 2019.
A Roma due ragazze vengono investite e uccise mentre attraversano la strada; il guidatore risulta positivo all’alcol test e all’assunzione di cannabis e cocaina; dai primi accertamenti, le ragazze avrebbero attraversato con il rosso, ma l’auto viaggiava oltre i limiti di velocità consentiti.
La Cassazione ha stabilito che non costituirà più reato coltivare cannabis in casa, in minima quantità e solo per uso personale.
I due fatti saranno utilizzati dai proibizionisti e da chi vuole legalizzare la droga per spingere la loro posizione; non sono poche infatti le vittime di incidenti stradali perché il guidatore guidava sotto l’effetto di stupefacenti (quindi esiste una pericolosità sociale anche per il cosiddetto “uso personale”); del resto, visti i danni dell’alcol, perché non vietare anche questo?
In realtà, l’unica strada per risolvere razionalmente il problema, mediando i diritti del singolo con quelli della collettività, c’è e si chiama emarginazionismo. Brevemente, il termine indica la strategia di permettere l’uso di droghe, ma emargina socialmente il soggetto impedendogli di creare danni sociali: niente patente, niente lavori che richiedono attenzione e lucidità, niente attività pubbliche a contatto con giovani (come l’insegnamento) ecc. Il drogato può comunque ritagliarsi una propria vita con attività private e coltivare i spropri “sogni”…
In sostanza, l’emarginazionismo è abbastanza vicino alla sentenza della Cassazione: in casa propria uno può fare ciò che vuole, ma, appena esce di casa e ha interazione con la società, non può diventare anche solo potenzialmente pericoloso. L’emarginazionismo è una soluzione molto razionale, ma sicuramente troverà l’opposizione di molti “liberalizzatori” perché, di fatto, molti di essi sono stati o sono consumatori abituali di cannabis.