Tutti conoscono il concetto di “stress sul lavoro”; quando questo stress diventa così evidente e prolungato da sembrare una vera condizione patologica si parla di burn-out: il lavoratore è “bruciato” (il significato di burn out è bruciare, esaurirsi, consumarsi). Secondo le statistiche, a seconda dei vari Paesi, fra il 20 e il 35% dei lavoratori soffrirebbe di burn-out durante la propria carriera.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva appena annunciato che questo stato di burn-out era entrato nella Classificazione Internazionale delle malattie, ma martedì 28 maggio ha fatto marcia indietro e in un’imbarazzata conferenza stampa ha chiarito che tale condizione non è riconosciuta come una malattia, sostenendo che il burn-out era infatti già nella precedente classificazione sotto il capitolo Fattori che influenzano lo stato di salute.
Nella nota diffusa ai media si dice che “l’inclusione in questo capitolo significa specificamente che il burn-out non è concettualizzato come una condizione medica, ma piuttosto come un fenomeno legato al lavoro”.
In realtà, solo la definizione di burn-out è stata modificata dall’OMS, per la quale non dovrebbe in alcun modo essere associato a un campo diverso da quello del lavoro, come potrebbe essere fatto per lo stress dovuto al ruolo di genitore, comunemente chiamato burn-out dei genitori. In questa nuova classificazione, chiamata CIP-11 e già pubblicata lo scorso anno, è descritto come “una sindrome (…) derivante da stress cronico sul lavoro che non è stato gestito con successo” e che è caratterizzato da tre elementi: “una sensazione di esaurimento”, “cinismo o sentimenti negativi legati al proprio lavoro” e “ridotta efficienza professionale”. Il nuovo IPC-11 entrerà in vigore il primo gennaio 2022. Sulla base dei risultati degli esperti di salute di tutto il mondo, l’obiettivo è di fornire un linguaggio comune attraverso il quale i professionisti della salute possono scambiare informazioni sanitarie in tutto il mondo.
Il dietrofront dell’OMS è uno dei tanti passi falsi nella valutazione delle malattie psichiatriche e/o psicologiche: basti pensare che fino al 1995 l’OMS aveva nella sua lista delle malattie l’omosessualità. Nel caso del burn-out, scelte personali (il condizionamento di fare carriera e/o di avere successo), bisogni sociali (la necessità di un lavoro), pressioni familiari (si pensi al figlio che deve mandare avanti l’azienda di famiglia) ecc. sono i veri fattori scatenanti il problema e ricondurre un sintomo di un disagio personale a una malattia è oggettivamente eccessivo.