Un recente articolo apparso su The Conversation di alcuni ricercatori nel campo delle Neuroscienze dell’università britannica di Cardiff fa il punto su un tema controverso della moderna genetica: esiste un rischio genetico che aumenti la probabilità di ammalarsi della malattia di Alzheimer? In caso affermativo, quali sono le conseguenze sulle strategie di diagnosi precoce?
I recenti risultati della ricerca genetica hanno mostrato che alcuni individui portano varianti di geni specifici che aumentano il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer in età avanzata. Per esempio, i portatori della variante ε4 del gene APOE hanno una probabilità di circa tre-otto volte maggiore di ricevere una diagnosi di morbo di Alzheimer dopo i sessant’anni, rispetto agli individui senza questa variante. La presenza di altri varianti aumenta maggiormente il rischio. La prima cosa che sottolineano i ricercatori è che rischio maggiore non significa rischio alto e che la presenza delle varianti non significa necessariamente che si svilupperà la malattia.
I ricercatori hanno pubblicato recentemente (2019) sulla rivista internazionale Neurobiology of aging uno studio che esamina la presenza di questi fattori genetici in giovani di vent’anni, distinguendo i due gruppi di portatori (rischio più alto) e non portatori (rischio più basso) della variante. Usando tecniche sofisticate di analisi d’immagini (trattografia) nella microstruttura del cervello, sono state riscontrate differenze e modifiche collegabili a una diminuzione delle capacità di connessione dei neuroni. Le modifiche erano evidenti quindi parecchi decenni prima del potenziale insorgere della malattia.
Il tutto è ulteriormente complicato dal fatto che oggi sono disponibili kit fai-da-te per l’analisi del proprio patrimonio genetico, che stanno avendo un vero e proprio boom di popolarità. Questi kit sono pensati espressamente per il “consumatore finale” e non per l’esperto di genetica. Gli scienziati mettono in guardia sul fatto che il costo relativamente basso di questi dispositivi necessariamente comporta che siano in grado di analizzare solo una frazione limitata del genoma. I risultati, quindi, trascurano il contributo del resto del codice genetico dell’utente. Ciò potrebbe includere altri geni con effetti protettivi. Quindi, anche se rilevano la presenza di variazioni potenzialmente patologiche (compresa anche quella del morbo di Alzheimer), non sono in grado di mostrare la presenza di altre varianti che potenzialmente riducono il rischio di molte patologie.
Gli studiosi si pongono come prossimo obiettivo quello scoprire a quali fattori potrebbero essere legati le modifiche strutturali del cervello evidenziate nello studio e capire come mai alcuni individui li sviluppano con così largo anticipo. Inoltre sottolineano che alcuni fattori protettivi potrebbero essere al di fuori del patrimonio genetico individuale, ma sono collegati allo stile di vita: dieta ed esercizio fisico in primo luogo.
Lo scopo delle future ricerche, a opera di un team internazionale di scienziati, coordinato dalla Professoressa Kim Graham e dal Professor Andrew Lawrence alla Cardiff University, è quello di realizzare studi di coorte su larga scala per riuscire a separare il contributo genetico da quello relativo allo di stile di vita per capire i reali effetti sulle prestazioni cognitive e il rischio di Alzheimer.