Le radici delle varie concezioni pedagogiche della cultura occidentale sono da rinvenire nella civiltà ionica della Grecia arcaica (XV-XI sec. a.C.): in questo periodo l’educazione era esclusivamente orale, basata sull’acquisizione di modelli comportamentali fissi dalle figure di riferimento della vita quotidiana, cioè il padre per i figli maschi, la madre per le figlie femmine. La scrittura, in questa fase, era basata sul complicato alfabeto cuneiforme ed era riservata alla classe degli scribi.
A partire dall’XI secolo, però, con l’incremento degli scambi e l’introduzione delle prime leggi nei nuovi agglomerati urbani, le polis, fu sviluppata la più accessibile scrittura alfabetica, base per la democratizzazione della conoscenza. Queste trasformazioni socioeconomiche portarono anche a un progresso culturale, che stimolò la definizione di modelli educativi dal punto di vista fisico, morale e intellettuale, riservati però unicamente ai giovani aristocratici, ritenuti depositari di doti innate da affinare. Solo a partire dal V sec. a.C. fu concesso anche al popolo e alla piccola borghesia (donne escluse) di imparare a leggere e scrivere, per la necessità di comprendere le leggi.
Nell’età della polis emerge il caso di Sparta, che prevedeva l’affidamento dei figli a comunità educative che si proponevano di formare giovani forti, obbedienti, capaci di combattere e di sopportare il dolore, abituati a una disciplina rigorosa, lasciando in secondo piano l’educazione artistica e formale. Questo percorso riguardava anche le donne, caso unico nella Grecia antica.
L’istruzione delle classi sociali non aristocratiche in ascesa nelle altre polis, invece, era affidata, a pagamento, ai sofisti, intellettuali esperti di tecniche oratorie e retoriche. Essi assegnavano all’educazione il ruolo di fornire ai giovani non solo conoscenze teoriche, ma anche abilità e tecniche utili per le attività della vita pubblica (grammatica, retorica, dialettica) e attribuivano molta importanza all’influenza dell’ambiente sulla formazione.
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