Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (Aron Hector Schmitz), è il primo romanziere compiutamente novecentesco e di formazione europea. Figlio di un commerciante ebreo di origine tedesca, nasce a Trieste nel 1861 e compie i suoi studi tra la città natale e la Baviera. Gli interessi letterari vengono messi in secondo piano dalle necessità economiche, che lo portano a lavorare per vent’anni come impiegato di banca. In questo periodo, però, Svevo scrive e pubblica a proprie spese i suoi primi due romanzi, Una vita e Senilità, senza successo. Lo sconforto per l’insuccesso porta a un periodo di abbandono della scrittura. Proprio in questi anni, tuttavia, lo scrittore triestino si dedica, per interesse personale, all’approfondimento della teoria psicanalitica di Freud, che sarà fondamentale per la genesi del suo capolavoro, il romanzo La coscienza di Zeno. La stesura di questo romanzo viene incoraggiata anche dall’amicizia e dai consigli dello scrittore irlandese James Joyce, residente a Trieste negli anni precedenti la guerra. L’opera, pubblicata nel dopoguerra, passa inosservata in Italia, nonostante le positive critiche europee, fino all’entusiastica recensione di Eugenio Montale.
La coscienza di Zeno viene considerata un’opera capitale per il Novecento per la sua novità sia dal punto di vista del contenuto sia, soprattutto, da quello della struttura narrativa. Non si tratta, infatti, di una semplice autobiografia, ma dell’affollarsi sulla pagina di ricordi consapevoli e no, suscitati dalla cura psicanalitica a cui si sottopone il protagonista. Per questo lo schema narrativo non è scandito da uno sviluppo logico-cronologico, ma si snoda in modo disordinato intorno a capitoli tematici in cui l’inconscio filtra le informazioni più o meno importanti. La psicanalisi, più che come metodo di cura, continuamente smentito e ridicolizzato dal romanzo, viene sfruttata dall’autore come fonte di tecniche narrative.
Il protagonista del romanzo, Zeno Cosini, è un’evoluzione del prototipo dell'”inetto”, incarnato dai precedenti personaggi creati da Svevo: egli, infatti, è apparentemente un uomo inadatto alla vita concreta e alle relazioni, ma in realtà, proprio grazie alla sua diversità e al suo riflettere ossessivo sulle convenzioni sociali, risulta alla fine sempre vincente ed è un uomo sostanzialmente fortunato.
Celebre è la pessimistica chiusura dell’opera: la malattia non è una condizione eccezionale, ma è insita nell’umanità contemporanea e l’unica via di purificazione potrebbe essere una catastrofe universale, che l’uomo finirà per provocare da sé con la sua malvagità e la sua presunzione.
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