Gli antiaritmici sono farmaci rivolti a ripristinare la normale conduzione elettrica nel cuore. Non sono gli unici farmaci cardiaci usati (da ricordare la digossina e i nitroderivati che riducono il lavoro cardiaco e il fabbisogno di ossigeno), ma, come dice il nome, sono quelli che agiscono direttamente sul ritmo del cuore. Infatti, un’alterazione dell’attività elettrica cardiaca può causare aritmie più o meno gravi, a volte letali.
Gli antiaritmici vengono suddivisi in cinque classi secondo la classificazione Vaughan Williams, in base al loro effetto sul potenziale d’azione, il fenomeno elettrofisiologico che genera lo stimolo elettrico che regola la contrazione del miocardio.
- Classe I – Farmaci che lavorano sui canali del sodio (in maniera analoga ai farmaci anestetici).
- Classe II – Farmaci betabloccanti, cioè farmaci che bloccano i recettori del sistema betadrenergico. Sono usati nelle tachicardie e nelle aritmie dovute a eccessivo tono adrenergico. I betabloccanti agiscono sul cuore, ma hanno anche un’azione secondaria a livello dei reni dove bloccano la secrezione di renina e di conseguenza diminuiscono la pressione arteriosa.
- Classe III – Farmaci che agiscono sui canali del potassio.
- Classe IV – Vi appartengono i calcio-antagonisti, una categoria di farmaci molto utilizzata attualmente anche per trattare l’ipertensione arteriosa. I canali del calcio sono presenti in molto tessuti, ma questi principi attivi agiscono principalmente a livello cardiaco e sulla muscolatura liscia dei vasi periferici. Causano quindi anche ipotensione dovuta a vasodilatazione periferica.
- Classe V – Farmaci con attività antiaritmica con meccanismo non ancora completamente compreso.
In campo professionale oggi si utilizzano suddivisioni più moderne, basate sui meccanismi d’azione di questi farmaci e dei loro bersagli farmacologici.
Poiché i farmaci antiaritmici influenzano l’attività elettrica del cuore, paradossalmente l’effetto secondario più frequente è l’induzione di aritmie anche mortali. Questo fenomeno è stato osservato negli anni ’90. Si scoprì che, nonostante i farmaci antiaritmici riportassero il ritmo cardiaco alla normalità, la mortalità dei pazienti aumentava di tre volte. Grazie a queste osservazioni, l’utilizzo di farmaci antiaritmici è molto controllato e ora sono proposte altre terapie non farmacologiche. Tra queste, da citare l’ablazione transcatetere con radiofrequenza e l’utilizzo del defibrillatore cardiaco impiantabile (ICD), essenziale nei casi di aritmie ventricolari maligne.
Importante conoscere la differenza fra pacemaker (PM) e l’ICD. Il PM monitora il battito cardiaco ed eroga un impulso se rileva una frequenza troppo bassa (ritmo cardiaco molto lento, causa di vertigini o svenimenti); l’ICD è un pacemaker con in più la capacità di riconoscere un’aritmia cardiaca a ritmi elevati, iniziando una terapia elettrica per risolverla prima che diventi pericolosa per il paziente.
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