L’estate dopo la maturità la passai nei campi allenando i miei segugi. Per non disturbare la selvaggina, l’addestramento dei cani era consentito solo dai primi di agosto, ma i miei cani non sapevano leggere il calendario e io li assecondavo volentieri, anche perché, più che un disturbo, lo vedevo un modo di rendere più furbi i selvatici.
Una sera, tornando alla macchina, trovai che mi aspettava un vecchio cacciatore che incominciò a inveirmi contro, ritenendomi responsabile praticamente di ogni scempio contro la fauna. Conoscendolo, sapevo che parlava per l’invidia tipica verso un forte rivale. Stimai la situazione: avevamo la stessa corporatura e lui aveva il triplo dei miei anni. Molti non avrebbero accettato gli insulti e “gliela avrebbero fatta pagare” (pur avendo torto, visto che dovevo essere multato per addestramento fuori dai tempi consentiti). Scelsi un’altra strategia. Mentre inveiva e cercava il contatto, indietreggiavo e cercavo di farlo ragionare:
“Non penso che riuscirai mai a prendermi. Potevi avvertire un guardiacaccia e farmi multare. Cosa pensi di fare? Se facciamo a botte e le prendi ti va male; se ci rimetto io, supponiamo che cado, batto la testa e ci resto secco. Non hai a casa qualcuno che ti aspetta? Cosa ci guadagneresti a passare i tuoi ultimi anni in prigione? Ecc.”
Fece si è no cento metri, poi il caldo e l’umidità della sera di luglio sbollirono la sua rabbia. Rimase immobile e ansimante, senza sapere che fare.
“Fra dieci giorni si può “andare con i cani”; che ne dici se prendi i tuoi due più bravi e, insieme ai miei, ti porto in un posto dove troviamo sicuramente 3 o 4 lepri?”
I suoi occhi si illuminarono e gli uscì solo di chiedermi dove.
“Scusa, se ti ho fatto correre. Dai, torniamo alla macchina che ti spiego dove.”…