La cosa più bella che ha scritto Roberto Albanesi secondo me è: “chi ama la sua vita non ha paura di perderla”. Mi riconosco in questa frase e ritengo ipocrita definire “buttati via” (quindi persi…) i mesi passati in caserma… anche le domeniche passate in chiesa potrebbero sembrare buttate via per chi come me la Chiesa non la frequenta più.
Non è proprio questo il senso della frase (dire di non aver paura di perdere la vita vuol dire imparare a convivere con l’idea della morte), non vuol dire essere contenti se la si vive in modo schifoso!
Ribadisco: per me i mesi passati in caserma mi sono stati portati via; certo, da esperienze negative si impara sempre qualcosa, ma io preferisco imparare le cose negative da altri (esperienza da altri): per capire che andare sotto un TIR è mortale è meglio vedere un incidente in televisione che finirci personalmente!
Quindi, per favore, imparate che distorcersi una caviglia (o fare un’influenza) non fortifica l’articolazione (il corpo), serve solo a sentir male. Certo, s’impara anche a guardare dove si mettono i piedi, ma attenzione a non sopravvalutare positivamente i momenti negativi perché di momento negativo in momento negativo la vita scorre via.
La negatività dell’esperienza militare probabilmente sfugge a tutti coloro che il militare non l’hanno fatto e a quelli che l’hanno fatto, ma non hanno sufficiente energia vitale. Alcuni episodi sono nel sito (come La branda), ma me ne vengono in mente altri che sono un vero e proprio giudizio senza appello.
Ricordo una delle prime mattine a San Donà di Piave: io e un mio conterraneo (di Dorno), conosciuto per l’occasione, certo Strada, cacciatore. Una riflessione comune: “oggi, è il primo giorno di caccia; l’anno scorso eravamo dietro ai nostri cani”. Una profonda tristezza negli occhi.
Erano i tempi in cui si giocava a fare la guerra con la Russia (nel senso che se i russi ci avessero attaccati ci avrebbero spazzati via), ma sottufficiali e ufficiali ci credevano a tal punto che quando si rendevano conto di quanto la loro vita fosse vuota e di quanto le parate fossero false, si suicidavano: ben due suicidi in sei mesi nella caserma dove ero stato trasferito.
La gerarchia militare era talmente ridicola che una stella in più rendeva chi non l’aveva succube dell’altro. Alle adunate notavo l’invidia del maggiore i cui occhi puntavano il posto dal quale parlava il tenente colonnello, pregustando il momento in cui sarebbe toccato a lui.
I primi tempi alla sera studiavo in camerata. Poi una sera venne un tenente che mi precettò per pulire una stanza dove gli ufficiali avrebbero tenuto una festa. Timidamente dissi che dovevo studiare, ma lui allargò le braccia e fu irremovibile e così mi toccò andare. Ovviamente dovetti affittare una stanza fuori dalla caserma e sperare che l’ufficiale di turno non facesse storie per i capelli troppo lunghi o la giacca sgualcita, impedendomi la libera uscita. Continuo a pensare che siano preferibili 13 mesi di carcere a 13 mesi in cui sostanzialmente sei uno schiavo senza che tu abbia commesso nulla per meritarlo (ah, la panzana che tutti devono servire la patria è ampiamente smentita dal fatto che oggi il servizio militare non è più obbligatorio).
Chi studiava materie scientifiche, dopo un breve corso, aveva l’onore di diventare specialista al tiro (ero in artiglieria). Il rovescio della medaglia era che, poiché gli specialisti al tiro servivano una settimana all’anno (quella del “campo”), una settimana sì e una no erano di guardia a una polveriera che nessuno si sarebbe mai sognato di attaccare. Alla prova finale del corso, fu difficile, ma non azzeccai nemmeno una risposta; saputo che ero iscritto a ingegneria, il maggiore, con tono serio mi disse: “Albanesi, cambia facoltà, anzi, vai a lavorare, con la matematica tu proprio non c’entri nulla!”. E io che pensavo che lui con la vita non c’entrasse proprio niente…
Io ero andato a militare a 19 anni, ma c’era gente che aveva rinviato fino a farlo magari laureata, con famiglia e figli. Alcuni di loro li vedevi alla sera piangere dopo una telefonata ai loro cari, inconsciamente convinti che quell’anno non sarebbe mai passato. Commentando la scena, l’ufficiale di turno mi raccontava che “il servizio militare forgia” e io annuivo compiacendolo, mentre pensavo un “cretino, forse pensi così perché non hai proprio nulla che vale la pena amare”.
Son passati 40 anni da allora e forse alcune cose sono cambiate ma la mia allergia ai militari è rimasta seconda solo a quella per i politici (vedasi la storiella alla fine dell’articolo sull’ambizione).