Il matrimonio è, secondo la Costituzione Italiana (art. 29), il cardine giuridico della famiglia, intesa come gruppo sociale (per usare i termini della Costituzione “società naturale”), che costituisce, di regola e secondo quanto più comunemente accade, il nucleo base della società. La definizione lascia trasparire, in tutta evidenza, il portato del momento storico nel quale la Costituzione è venuta alla luce, con essa,infatti, non si lasciava spazio a forme diverse di vincolo, come, per esempio, la convivenza che, invece, negli ultimi anni sta divenendo, a pieno titolo, portatrice di conseguenze anche giuridiche.
La finalità dell’articolo non è, in tutta evidenza, di carattere sociologico o storico e, quindi, si affronterà unicamente la questione sotto il profilo giuridico, evidenziando quelli che sono gli aspetti tipici del matrimonio, procedendo alla disamina, in primo luogo, degli aspetti prodromici, quali la promessa di matrimonio, per seguire con la sua celebrazione e finire con l’occuparsi delle conseguenze giuridiche che ne derivano.
Un ulteriore approfondimento sarà svolto relativamente alla fase di dissoluzione del matrimonio (separazione personale dei coniugi e divorzio). Dal tema, invece, è estraneo quello relativo ai figli. Infatti, alla data odierna, sono sostanzialmente identici i diritti/doveri dei genitori nei confronti dei figli, indipendentemente dalla circostanza che questi ultimi siano tra loro coniugati o no.
Iniziamo, come anticipato, dalla promessa di matrimonio anche definita, con termine arcaico, “sponsali”. Nell’ambito della disciplina descritta dagli artt. 79-81 del codice civile è possibile distinguere una promessa semplice da quella solenne, eseguita con le forme dell’art. 81 (ovvero per atto pubblico o scrittura privata). L’art. 79 non fornisce una definizione di promessa che, però, si può ricavare dall’art. 81, individuandola nell’impegno a contrarre matrimonio, espresso da un soggetto dotato della capacità giuridica necessaria per tale atto (di regola 18 anni, ma si veda l’ipotesi dell’emancipazione).
L’art. 79 chiarisce, invece, che la promessa non obbliga a contrarre il matrimonio promesso e, inoltre, non obbliga al pagamento o all’adempimento dell’eventuale prestazione, che sia stata dedotta nella promessa come penale per il mancato adempimento. In sostanza, l’impegno è sanzionato da nullità sotto entrambi i profili. Viene, quindi, fissato l’essenziale principio di libertà matrimoniale che, come si dirà in tema di separazione, si lega alla libertà di giungere alla separazione. Dunque l’ordinamento pone l’accento, essenziale oggi, sulla libertà della partecipazione alla famiglia.
La promessa di matrimonio, però, ha delle conseguenze patrimoniali.
La promessa semplice (che può essere anche unilaterale), priva, quindi, di forme, determina che il promittente ha il diritto di richiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio, ovviamente per il caso in cui il matrimonio non venga celebrato. Sul punto è molto discussa la distinzione tra tali forme di attribuzioni e le donazioni obnuziali (in vista del matrimonio); il tema diviene rilevante, in tutta evidenza, quando si chieda la restituzione del bene, poiché le donazioni obnuziali richiedono, sempre, forme ben specifiche e la carenza di esse rende l’attribuzione nulla.
Il tema non può esimere da un’analisi caso per caso; esula, quindi, dal senso del presente scritto; è pacifico (… scarsa soddisfazione …) che le fotografie scambiate tra fidanzati facciano parte del concetto di dono e che, quindi, vadano restituite. Ovviamente quelle scambiate in conseguenza della promessa. L’azione per la restituzione ha termine di decadenza di un anno, entro il quale deve essere instaurato il procedimento.
La promessa solenne, invece, è quella che i futuri coniugi (o intenzionati a essere tali) formulano vicendevolmente con specifica formalità, atto pubblico o scrittura privata, ovvero che risulti dalla richiesta di pubblicazione (art. 93 del codice civile). Le conseguenze, sempre di natura patrimoniale (vale anche per tale promessa, comunque, l’impossibilità di coartazione, art. 79 del codice civile) è più ampia, poiché impone, per il mancato adempimento, l’obbligo di risarcire il danno causato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte, in conseguenza di tale promessa. La parte che rifiuta il matrimonio, però, è ammessa a provare che tale comportamento sia conseguenza di un “giusto motivo” che, quindi, esclude il risarcimento. Tale requisito viene individuato nella ricorrenza delle ipotesi di cui all’art. 122 III comma del codice civile, ma anche quando, in via esemplificativa, si venga a conoscenza dell’esistenza di precedenti morali riprovevoli, tendenza al gioco, malattie sessuali.
Qualora non sia invocabile tale “esimente”, la parte che recede dalla promessa è tenuta, come detto, a risarcire il danno. Esso è costituito, però, solo dalle spese fatte (acquisto dell’abito) e dalle obbligazioni contratte (si pensi a un eventuale contratto per il rinfresco); non sono, invece, risarcibili i danni morali o i danni alla reputazione. In proposito basti un cenno, però, per ricordare che, qualora accanto alla rottura della promessa, vi siano altri comportamenti, che di per sé costituiscano un illecito, la norma non può fungere da limitazione al risarcimento.
Atti preparatori e celebrazione
Con il termine matrimonio si è soliti individuare sia l’atto concreto dello sposarsi, quindi la celebrazione, quanto il rapporto giuridico che ne scaturisce, quindi quello che potremmo definire regime matrimoniale. Di questo secondo ci occuperemo in separato articolo, mentre qui ci occuperemo della celebrazione.
Attualmente in Italia esistono tre distinte modalità per la celebrazione del matrimonio, ovvero quella civile, quella del culto cattolico e quella degli altri culti religiosi. È bene chiarire, da subito, che nonostante vi siano plurime forme di celebrazione, il matrimonio nella sua fase dinamica (il rapporto giuridico che ne deriva) è regolato solo ed esclusivamente dalla legge italiana. Indipendentemente da come ci si sposa, i diritti e doveri sono sempre gli stessi.
Matrimonio civile
Per poter contrarre matrimonio, è necessario avere raggiunto la maggiore età (18 anni), salvo i casi di emancipazione; ovvero quelli in cui, in forza di richiesta dell’interessato, il Tribunale autorizzi il minore di età, ma maggiore di anni 16, a contrarre matrimonio (art. 84 del codice civile). Non può contrarre matrimonio l’interdetto (art. 85 del codice civile) e neppure chi sia già vincolato da un precedente matrimonio (art. 86 del codice civile, divieto di bigamia).
Vi sono delle limitazioni anche nella scelta del partner; l’art. 87 del codice civile, infatti, prevede che non possano contrarre matrimonio, tra loro, una serie di soggetti perché legati da vincoli di parentela (per esempio lo zio e la nipote) ovvero da un vincolo giuridico come quello di adozione. In queste ipotesi, però, è possibile che il Tribunale, su ricorso degli interessati, autorizzi deroghe alla disciplina. Neppure possono contrarre matrimonio tra loro, le persone delle quali l’una sia stata condannata per omicidio consumato o tentato nei confronti del coniuge dell’altra (art. 88).
L’art. 89 del codice civile, infine, prevede una limitazione per la donna di “nuovo” matrimonio, che non potrà essere celebrato se non decorsi trecento giorni dallo scioglimento, annullamento o cessazione di quello precedente. Ciò serve a evitare incertezze sull’attribuzione di paternità dell’eventuale figlio che venga a nascere. In realtà la questione è affrontata anche dall’art. 232 II comma del codice civile e, quindi, la norma pare oramai inutile. La sanzione per questa specifica violazione è solo un’ammenda.
Il matrimonio è preceduto dalla pubblicazione che viene eseguita a cura dell’ufficiale dello stato civile ed è finalizzata a rendere pubblica l’intenzione della celebrazione; la pubblicazione (anche al plurale nel linguaggio comune) deve essere richiesta nel comune di residenza degli sposi (ai sensi dell’art. 53 D.P.R. 396/2000, quando gli sposi risiedono in comuni diversi, sarà l’ufficio presso il quale è stata richiesta la pubblicazione a richiedere pari adempimento all’ufficio comunale dell’altra residenza). La richiesta deve essere fatta dagli sposi o da un procuratore speciale, all’uopo incaricato. L’affissione avviene presso il Comune, in apposita bacheca, e la pubblicazione deve rimanere affissa per otto giorni. Decorsi tre giorni è possibile per l’ufficiale di stato civile celebrare il matrimonio; ciò deve avvenire entro 180 giorni dal termine della pubblicazione, altrimenti ne dovrà essere eseguita una nuova. L’ufficiale di stato civile, ai sensi dell’art. 98 del codice civile, può rifiutare le pubblicazioni, qualora vi sia incompletezza di documenti, esistenza di impedimenti, contraddittorietà delle dichiarazioni. Contro tale provvedimento è ammesso ricorso al Tribunale competente[1].
L’art. 102 del codice civile prevede che alcuni soggetti (genitori, e in loro mancanza ascendenti e collaterali) possono fare opposizione al matrimonio, per qualunque causa. Vi può procedere anche il tutore o curatore (se uno degli sposi vi è soggetto) oppure il coniuge di persona che voglia contrarre altro matrimonio. Le cause di impugnazione, secondo la tesi più accreditata, sono solo quelle disciplinate dagli art. 120 e seguenti del codice civile di cui ci si occuperà discorrendo delle nullità matrimoniali.
Qualora non vi siano impedimenti, il matrimonio può essere celebrato. Ciò avviene avanti all’ufficiale dello stato civile del comune ove è stata fatta la pubblicazione (ovvero anche in un altro comune, ex art. 109 del codice civile). Nel giorno indicato dalle parti, sarà necessaria la presenza di due testimoni, anche se parenti, e l’ufficiale di stato civile procederà alla lettura degli artt. 143-144 e 147 del codice civile; dovrà, inoltre, ricevere le dichiarazioni di entrambi di volersi prendere per marito e moglie e, successivamente, raccogliere le sottoscrizioni sull’atto di matrimonio, che deve essere immediatamente compilato.
La dichiarazione matrimoniale non può essere sottoposta a termini o condizioni. Se ciò avviene, l’ufficiale non deve procedere alla celebrazione; se il matrimonio, comunque, viene celebrato, la condizione o il termine si devono intendere per non apposti.
L’art. 111 del codice civile prevede l’ipotesi della celebrazione del matrimonio per procura; esso attiene ai militari o alle persone che, per ragioni di servizio, si trovano al seguito di Forze Armate, in tempo di guerra. Può essere utilizzata anche quando uno degli sposi risieda all’estero e vi siano gravi motivi, che debbono, però, essere valutati dal Tribunale. La procura dovrà essere fatta per atto pubblico, con specifica indicazione anche della persona con cui si vuole contrarre matrimonio e ha efficacia di 180 giorni.

Il termine matrimonio deriva dal latino matrimonium, derivato di mater -tris «madre», sul modello di patrimonium
Matrimonio cattolico
La dizione matrimonio cattolico è inesatta o, comunque, va bene interpretata. Trattasi, sostanzialmente, del fenomeno per cui l’ordinamento italiano attribuisce efficacia, quale matrimonio, a un atto proprio di altro ordinamento, in questo caso dello Stato Vaticano. Quindi, meglio ribadirlo, vi è solamente una diversa celebrazione, ma gli effetti saranno gli stessi.
Ai sensi dell’art. 8 dell’accordo di revisione dei Patti Lateranensi (accordo 18/02/1984), sono riconosciuti gli effetti civili del matrimonio contratto secondo il diritto canonico, a condizione che sia trascritto nei registri e sia stato preceduto dalle pubblicazioni. Il parroco o il delegato, dopo la celebrazione canonica, deve spiegare ai contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti esso e dovrà redigere l’atto di matrimonio in duplice originale.
La celebrazione di un matrimonio cattolico ha specifici effetti soprattutto in termini di eventuale impugnazione successiva poiché è possibile per i soggetti ottenere un’eventuale dichiarazione di nullità canonica, per il tramite delle autorità ecclesiastiche a ciò deputate, che sia poi riconosciuta nell’ordinamento italiano. Per l’analogia del termine (e non tanto per affinità) di ciò ci si occuperà discorrendo di separazione e divorzio.
Matrimonio con culto acattolico
Accanto alle due forme di celebrazione sopra ricordate, ve ne sono altre, legate alla specifica fede religiosa dei soggetti nubendi. Anche in questo caso, trattasi della celebrazione di un matrimonio secondo lo specifico rito religioso prescelto, al quale viene conferita efficacia nell’ambito dell’ordinamento italiano.
In linea generale, tale celebrazione presuppone, oltre sempre alla pubblicazione e all’assenza degli impedimenti, che la nomina del ministro di culto sia stata approvata dal Ministero degli Interni. Dopo la celebrazione, assolutamente essenziale è la trascrizione nei registri dello stato civile.
Una distinzione importante con la chiesa cattolica consiste pure nel fatto che anche la fase giurisdizionale (quindi le eventuali cause di nullità) sono regolate solo dall’ordinamento italiano, nel mentre, come ricordato, lo Stato Vaticano mantiene una propria giurisdizione che, a determinate condizioni, esplica effetti anche in Italia.
[1] Una curiosità tecnica, ma utile a comprendere fatti di cronaca. Il tentativo di legittimare il matrimonio tra persone dello stesso sesso passa, di regola, attraverso una richiesta di pubblicazione che viene rifiutata dall’Ufficiale di Stato Civile. Ne segue il ricorso al Tribunale, con promovimento di questione di legittimità costituzionale delle norme, nella parte in cui non ammettono tale matrimonio e, quindi, legittimano il rifiuto della pubblicazione; per chi fosse interessato, qui l’importante pronuncia della Corte Costituzionale.
Lorenzo Zanella
Avvocato
Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Treviso