Ingiuria e diffamazione sono due reati, spesso tra loro confusi, previsti nel codice penale vigente, posti, il primo, a tutela dell’onore e del decoro di una persona (l’onore attiene alle qualità che concorrono a determinare il valore di un individuo, mentre il decoro concerne il rispetto o il riguardo di cui ciascun essere umano è comunque degno) (Sez. 5, n. 34599 del 4.7.2008, imp. Camozzi, Rv. 241346), il secondo della sua reputazione, da intendersi come il complesso della identità personale di un soggetto, costituito dal “patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale, ideologico o professionale dell’individuo o della persona giuridica, comprensiva anche del profilo connesso alla attività economica e professionale svolta dall’individuo e alla considerazione che essa ottiene nel gruppo sociale, sicché la condotta lesiva può attenere anche al buon nome commerciale di un soggetto” (Cass. Pen. 16.06.2011 n. 37383).
In sostanza si vuole proteggere il buon nome di un soggetto, tanto personalmente, quanto nelle sue proiezioni sociali.
La differenza fondamentale ingiuria e diffamazione è costituita dalla circostanza che l’offesa avvenga alla presenza o meno del soggetto interessato. Nel primo caso, ovvero quando la persona è presente, ricorre l’ipotesi della ingiuria; nel secondo caso, invece, si dovrà parlare di diffamazione.
Si deve precisare, però, che per integrarsi il reato di diffamazione è necessario che il messaggio offensivo venga trasmesso ad almeno due persone (anche non contestualmente presenti), poiché la legge, espressamente, richiede tale requisito.
Offendere una persona non presente, quindi, alla presenza di un solo interlocutore non costituisce diffamazione (nonostante rimanga la possibilità di formulare una domanda di risarcimento del danno per la lesione della propria immagine, in ambito civile).
La presenza di più persone, che costituisce un elemento essenziale della diffamazione, è, invece, una circostanza aggravante dell’ingiuria.
Ingiuria e diffamazione: due reati complessi
All’apparenza reati molto semplici, l’ingiuria e la diffamazione presentano un rilevante profilo di complessità quando, scendendo dalla norma, si tratta di interpretare il fatto concreto accaduto, poiché molteplici sono gli aspetti che concorrono nella valutazione.
Un breve excursus nella giurisprudenza della Cassazione degli ultimi anni permette di comprendere i temi e di chiarire le diverse ipotesi.
Anzi tutto, se è vero che “esistono espressioni che oggettivamente (e dunque per l’intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) sono da considerarsi offensive in qualsiasi contesto” (Cass. Pen. 02.07.2010 n. 30956), è anche da sottolineare come “non ogni espressione forte o pungente che crei disappunto è automaticamente offensiva ai fini della responsabilità penale nei delitti contro l’onore; la sussistenza di un reato non può essere ancorata alla sensibilità della (presunta) parte offesa” (Cass. Pen. 16.02.2011 n. 10188).
Conta, dunque, il significato socialmente condiviso del termine, non l’effetto che ha sulla persona che se lo sente riferire.
Un’importante precisazione è data anche dalla rilevanza del contesto nel quale le frasi sono pronunciate; sul punto la Cassazione ha più volte chiarito che “la potenzialità offensiva di una determinata espressione non può essere valutata in astratto, ma deve essere contestualizzata ed apprezzata in concreto, in relazione alle modalità del fatto ed a tutte le circostanze che lo caratterizzano. Se l’epiteto in questione appare, astrattamente, di debole portata offensiva, deve però rilevarsi come nel contesto dei fatti esso fu idoneo a manifestare un disprezzo lesivo del decoro della persona, tanto più in quanto diretto verso un minore di età e in presenza dei suoi coetanei (confermata la condanna per ingiuria inflitta ad una donna che aveva dato dello “scioccarellino” a un ragazzo)” (Cass. Pen. 16.06.2011 n. 38297).
Per contro, si è anche precisato che “non integra il reato di ingiuria l’utilizzo in determinati contesti di parole o frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono ormai diventate di uso comune; esse perdono la loro portata offensiva, infatti, laddove utilizzate in un discorso tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto” (nella specie, nel corso di una seduta del Consiglio comunale l’imputato pronunciava l’espressione vaffanculo nei confronti di altro assessore) (Cass. Pen. 23.05.2007 n. 27966).
Vale a dire che un’espressione lievemente offensiva può essere una ingiuria per il contesto in cui viene esposta; vale, però, anche il contrario, ovvero che il contesto può giustificare espressioni che, normalmente, costituirebbero un’offesa.
Di regola, questa seconda notizia è quella che in televisione viene propinata quando si sente affermare che determinate parolacce possono essere utilizzate a seconda del contesto.

Il termine ingiuria deriva dal latino iniuria, der. dell’agg. iniurius, «ingiusto»
Ingiuria e diffamazione: qualche esempio
Giusto per fare qualche esempio, si ricordi che la Cassazione ha stabilito che:
- “ha natura offensiva l’espressione “zappatore”, qualora nel contesto in cui sia pronunciata rivesta il significato di incompetente. (Nella specie, la qualifica di lavoratore della terra, nella sua funzione più umile, era estranea all’attività svolta dalla persona offesa alla quale è stata attribuita con l’invito a tacere in quanto evidentemente ritenuta inidonea ad intervenire con le necessarie competenze (‘tu statte zitto, cà sì “nu zappatore”)” (Cass. Pen. 23.06.2011 n. 30187);
- “ha carattere ingiurioso l’espressione “bastardo”, atteso il significato, decisamente offensivo, assunto nel linguaggio moderno, analogo a quello di “mascalzone” (Cass. Pen. 03.06.2010 n. 32738);
- “si configura il reato di ingiuria allorquando il datore di lavoro rivolga alla propria dipendente un’espressione oggettivamente spregiativa (“sei una stronza”), non contribuendo ad escludere o attenuare la responsabilità datoriale il contesto – l’ambiente di lavoro – nel quale l’espressione è stata pronunciata” (Cass., Pen. 05.05.2010 n. 35099).
Il reato è stato riscontrato anche nella “espressione “tu stai attento a tuo figlio”, che per l’appunto si traduce in un rimprovero di scarsa attenzione verso i compiti facenti capo ad un padre; dal punto di vista giuridico, poi, non vi è dubbio che l’autorevolezza nell’espletamento del ruolo genitoriale faccia parte di quel bagaglio di qualità che, nell’apprezzamento dei consociati, contribuisce all’onore e al decorso di una persona: sicché la denigrazione di tale aspetto della personalità costituisce un’offesa penalmente rilevante sotto il profilo di cui all’art. 594 codice penale” (Cass. Pen. 04.03.2010 n. 23979).
È impossibile, quindi, fornire un criterio discretivo certo; esso, del resto, muta col passare dei tempi e con il mutare dei significati, sociali, attribuiti alle espressioni.
Qualora ci si trovi di fronte a una espressione che, alla luce di quanto esposto, sia ingiuriosa o diffamatoria, non ancora si può per certo ritenere integrato il reato.
In primo luogo sussistono due “cause di non punibilità” (in senso atecnico), in forza delle quali l’eventuale espressione comunque non viene punita.
Si tratta dell’art. 598 codice penale che dichiara non punibili le offese contenute “negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo“. In sostanza la legge consente che, nell’espletamento della difesa giudiziale, le frasi utilizzate siano “più forti”, purché “le espressioni offensive concernano, in modo diretto e immediato, l’oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata” (Cass. Pen. 19.05.2011 n. 29235); un rilevantissimo limite è costituito dalla impossibilità che tali offese giungano a costituire una falsa accusa di reato (calunnia).
In proposito è certo che “l’esimente di cui all’art. 598 codice penale – per il quale non sono punibili le offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative – non si applica allorché l’esposizione infedele espressa con la consapevolezza dell’innocenza dell’accusato integri un fatto costitutivo di illecito penale (calunnia), essendo, in tal caso, del tutto irrilevante la circostanza di avere agito nell’espletamento di condotta difensiva” (Cass. Pen. 30.06.2011 n. 31115).
Vi è, inoltre, l’art. 599 codice penale che prevede due ipotesi: la reciprocità e lo stato d’ira.
La reciprocità è prevista unicamente per il reato di ingiuria. Si stabilisce che il giudice può ritenere non punibili le offese reciproche, indipendentemente da chi abbia iniziato. La norma è una evidente applicazione anche del principio della “legittima difesa”; a fronte di una offesa, l’eventuale risposta può costituire, nell’ottica della legge, un rimedio sufficiente a ritenere definita la vicenda.
La norma, inoltre, prevede la scriminante dello stato d’ira, determinato dal fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Dunque, il soggetto che ingiuri o diffami, poiché a ciò spinto da uno stato d’ira può andare esente da colpa, a patto che il suo stato derivi da un fatto ingiusto altrui (e anche qui, non trattasi di un fatto che viene percepito soggettivamente come ingiusto) e, comunque, subito dopo di esso.
Il limite più rilevante, comunque, all’ingiuria e alla diffamazione, giunge dalle norme costituzionali che tutelano la libertà di pensiero e, con essa, il diritto di cronaca e di critica, in specie nell’ambito politico.
La cronaca è, in sostanza, il racconto dei fatti che accadono.
Oramai dal 1984, con la sentenza 18.10.1984 n. 5259 della Cassazione, si è chiarito che i requisiti della notizia debbono essere:
- verità oggettiva o anche solo putativa, purché frutto di un serio lavoro di approfondimento del giornalista;
- la continenza, ovvero il rispetto di modalità espressive che evitino, comunque, quelle puramente insultanti, prive di alcun collegamento con il tema della notizia;
- l’interesse pubblico all’informazione.
La critica, invece, è “un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando che il fatto presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca” (Cass. Civ. 06.04.2011 n. 7847).
Il diritto di cronaca, dunque, è maggiormente limitato, nel mentre la critica, costituendo un giudizio, ammette affermazioni forti ed espressioni di per sé ingiuriose.
Anche sotto questo profilo, comunque, si rinvengono degli ovvi limiti, ovvero la circostanza che la critica non costituisca un mero pretesto, per attacchi puramente personali. In proposito, ancora una volta, vale, più di mille giri di parole, il principio della Cassazione secondo la quale “la critica politica – come del resto anche quella sindacale o artistica – essendo espressione di una valutazione personale, non necessariamente deve essere obiettiva e può anche essere molto aspra ed essere rappresentata in modo suggestivo anche per catturare l’attenzione di chi ascolta, ma è altresì vero che la critica, che deve essere sempre espressa in modo continente e non deve trasformarsi in un puro attacco personale, deve poggiare su un dato fattuale vero; si vuol dire cioè che si è liberi di interpretare un fatto o una condotta, ma il fatto e la condotta che vengono criticati debbono essere veri, altrimenti non può parlarsi di corretto esercizio del diritto di critica” (Cass. Pen., 11.11.2011 47037).
Un’applicazione del principio, comporta che “una espressione di censura dell’operato delle forze dell’ordine non può essere esclusa aprioristicamente in ragione soltanto della qualità soggettiva del destinatario, mentre la contestualizzazione delle frasi utilizzate può condurre ad affermare l’assenza di efficacia offensiva di tali frasi quando dirette solo a criticare il comportamento tenuto dai destinatari …. nel valutare il comportamento del prevenuto, il quale aveva apostrofato alcuni appartenenti alle forze di polizia intervenuti a sedare un dissidio familiare affermando che “non erano in grado di fare il loro mestiere” e “non erano capaci di fare null’altro”, aveva escluso alcuna concreta valenza offensiva” (Cass. Pen. 30.06.2011 n. 32097).
Lorenzo Zanella
Avvocato
Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Treviso
Il diritto nel Manuale di cultura generale