La legge italiana garantisce il diritto all’identità della persona tramite disposizioni di vario rango che assicurano ad ogni individuo il diritto al nome.
La Costituzione, all’art.22, impedisce che chiunque possa “essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Da tale enunciato si ricava la massima tutela del diritto in esame in relazione a interessi politici che potrebbero generare discriminazioni verso alcuni soggetti. Tale disposizione, in effetti, rappresenta un’articolazione dei principi fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione, come la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.).
Il nome nel codice civile
La premessa rende solo parzialmente l’idea della dimensione del diritto al nome e come si è visto, la Costituzione ne protegge l’integrità, che può essere messa in pericolo da minacce ben specifiche.
L’art. 6 del codice civile, il quale attribuisce a ogni persona il diritto ad avere un nome, aggiunge che questo le è “per legge attribuito”, prima di stabilire che, per definizione, il nome comprende “il prenome e il cognome”. Il terzo comma, invece, rinviando alla legge per conoscere i presupposti da integrare, precisa che “cambiamenti, aggiunte o rettifiche” sono ammessi allorquando specifici requisiti formali e sostanziali siano soddisfatti. La legge di riferimento, in questo caso, è il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.
Venendo ad alcuni esempi applicativi del “sindacato sul nome” di cui all’art. 34 della succitata legge, la Corte di Appello di Genova, il 14 novembre 2007, ha sottolineato che “la libertà di scelta del nome da imporre al figlio” incontra il divieto “di imporre al bambino (…) nomi ridicoli e vergognosi”. La pronuncia prosegue specificando che “la norma ha il fine di evitare che l’attribuzione di un determinato nome possa creare situazioni discriminanti o rendere gravoso l’inserimento della persona nel contesto sociale. L’imposizione di un nome ‘ridicolo o vergognoso’ configura altresì un esercizio illegittimo della potestà genitoriale, stante il divieto generale di esercitare detta potestà in pregiudizio del minore. I parametri di ‘ridicolo e vergognoso’, richiamati dalla norma, non hanno a riferimento la sensibilità dei genitori, ma sono da valutarsi secondo il sentire comune della collettività in ordine ai nomi comuni e propri, sulla base dei significati dagli stessi evocati nella comunità sociale”.

Due dei nomi più diffusi in Italia sono Francesco e Giulia
Il prenome “Andrea”: l’incidenza del costume europeo ed extraeuropeo
A dirimere la questione, che indirettamente si sarebbe riversata nella sfera del legittimo esercizio della potestà genitoriale, è intervenuta un’importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione, che ha ritenuto non offensivo nei confronti di una neonata l’attribuzione del prenome “Andrea”, in quanto non riconducibile alla definizione di “ridicolo o vergognoso” di cui all’art 34, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. La Corte ha infatti stabilito che tale prenome non viola il disposto in esame “per la sua peculiarità lessicale”, né risulta contrario alla disposizione di cui all’art. 35 della stessa legge. Invero, prosegue spiegando che l’articolo in questione, “che impone la corrispondenza del nome al sesso, posto che il prenome ‘Andrea’ ha natura sessualmente neutra, essendo utilizzato, nella maggior parte dei paesi europei ed extraeuropei, per soggetti femminili e maschili indifferentemente, (…) non è produttivo di alcuna ambiguità”. (Cass., sez. I, 20 novembre 2012, n. 20385).
A chi spetta la scelta del nome?
A seguito della riforma del diritto di famiglia, è innegabile che la scelta spetti ad entrambi i genitori congiuntamente. In caso di contrasto, come sottolinea la giurisprudenza di legittimità (Cass. 9 maggio 1981, n. 3060), è possibile il ricorso al giudice, a norma dell’art. 316 c.c. (disciplinante la responsabilità genitoriale), integrando, tale aspetto, “una questione di particolare importanza”.
La tutela del diritto al nome
La legge offre importanti strumenti di difesa in caso di contestazione del diritto al nome e di uso indebito del proprio nome da parte di terzi. L’art. 7 c.c., infatti, riconosce, in queste situazioni, il diritto a chiedere la cessazione del fatto lesivo (tutela inibitoria), oltre al risarcimento del danno (tutela risarcitoria), consentendo inoltre all’Autorità Giudiziaria la possibilità di ordinare la pubblicazione dell’eventuale sentenza in uno o più giornali.
Affinché vi sia diritto al risarcimento del danno, la Cassazione, con la sentenza del 7 marzo 1991, n. 2426, ha precisato che non è sufficiente l’illegittimità della condotta lesiva del soggetto che arreca il pregiudizio, occorrendo anche il dolo o la colpa dello stesso, come imposto dall’art. 2043 c.c. in materia di fatto illecito. La stessa Corte ha chiarito che la pubblicazione della sentenza non può comunque sostituire il diritto al risarcimento.
L’art. 8 del Codice civile estende le tutele appena viste a “chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse fondato su ragioni familiari degne d’essere protette”, mentre l’art. 9, a chi utilizzi uno pseudonimo “in modo che abbia acquistato l’importanza del nome”.
La denominazione degli enti
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 26 febbraio 1981, n. 1185, ha ritenuto opportuno estendere analogicamente la tutela offerta alle persone fisiche, di cui all’art. 7 c.c., anche “in favore della persona giuridica, privata o pubblica, in relazione all’uguale interesse della medesima ad evitare confusione con altri soggetti” traducendosi, per questi, nella “facoltà di chiedere la cessazione di fatti di usurpazione in senso stretto, cioè di indebita assunzione in proprio del nome altrui, ovvero di fatti che implichino comunque un abusivo impiego del nome stesso quale segno distintivo, sempreché si deduca e dimostri la possibilità di un pregiudizio economico o morale, e non anche, quindi, di fatti di utilizzazione senza finalità distintive della personalità, come tali inidonei a ledere il predetto interesse”.
Antonio Belli
Praticante avvocato abilitato al patrocinio
Iscritto nel Registro dei Praticanti Abilitati dell’Ordine degli Avvocati di Roma