Il matrimonio, come già anticipato nell’articolo Matrimonio: promessa e celebrazione, è il termine con il quale si individua, oltre al momento celebrativo del vincolo, anche lo svilupparsi, in senso giuridico, dei rapporti tra i soggetti che a esso aderiscono, mediante la previsione di precisi diritti ed obblighi reciproci, che incidono in modo rilevante sulla libertà dei soggetti.
L’art. 143 del Codice Civile stabilisce, con valore programmatico rilevantissimo, la parità di diritti e doveri dei coniugi; la disposizione è il frutto della importante “riforma del diritto di famiglia”, approvata con l. 151/1975, che venne a far cessare una disparità di trattamento tra marito e moglie (in favore del primo) sussistente nel nostro ordinamento e portato, in tutta evidenza, della cultura patriarcale propria del nostro Paese. Sino a quella data, infatti, sussiste una preminenza del ruolo dell’uomo all’interno della famiglia, avente ripercussioni su molteplici aspetti, da quelli patrimoniali alle decisioni sull’educazione per i figli.
La riforma, invece, in piena sintonia con i principi della Costituzione (per altro di quasi trent’anni precedente…) faceva cessare la richiamata disparità, non limitandosi al semplice dettato sulla parificazione, ma precisando, in primo luogo, che ciascun coniuge è tenuto a contribuire ai bisogni della famiglia, secondo le proprie sostanze (proprietà) e secondo la propria capacità di lavoro professionale e casalingo (art. 142 comma III). Questo secondo riferimento, anche all’attività casalinga, ha rappresentato, per l’epoca, un’importante evoluzione del ruolo femminile (impegnato in via quasi esclusiva nelle attività domestiche), ponendo nel giusto rilievo l’essenziale ruolo, nella gestione della famiglia e nel concorso al benessere del nucleo, dell’attività, non portatrice di lucro, che in specie la donna garantiva.
A distanza di molti anni, in effetti, i mutamenti della famiglia stessa possono aver fatto perdere alla disposizione la sua pregnanza, soprattutto nelle giovani realtà; sussistono, però, vaste aree di popolazione per le quali la norma manifesta, ancora oggi, la sua rilevanza di riscatto morale ed economico rispetto al ruolo della casalinga.
L’art. 142 II comma del Codice Civile chiarisce quali siano i principali obblighi che derivano dal matrimonio, ovvero
- Fedeltà, per essa dovendosi intendere non solo l’astensione da rapporti sessuali o sentimentali con persone diverse dal coniuge, ma come vera e propria dedizione fisica e spirituale.
- Assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia, per ciò intendendosi il dovere di agire congiuntamente per il mantenimento dell’unità del nucleo familiare e per l’individuazione concorde dei bisogni della stessa, da perseguire per la soddisfazione solidale dei coniugi.
- Coabitazione, per ciò intendendosi l’impegno dei coniugi di fissare un luogo ove sia incentrata la vita familiare; è rilevante sottolineare come, nel tempo, e in conseguenza del mutamento della abitudini familiari, il vincolo sia stato attenuato, mediante la tolleranza di situazioni in cui vi siano anche dimore abituali diverse; il vincolo, però, impone che non si possano ipotizzare situazioni nei quali un coniuge riservi a sé dei luoghi, escludendo l’altro; per contro, è pacifico che è sufficiente anche il divieto di un solo coniuge all’ingresso di soggetto nella casa coniugale per escludere tale possibilità.
La logica conseguenza di tali impegni è che, come previsto dall’art. 144 del Codice Civile, i coniugi debbano concordare tra loro il cosiddetto indirizzo della vita familiare ovvero le scelte in merito alla ripartizione dei compiti in famiglia, il tenore economico della vita comune e, sostanzialmente, ogni vicenda che si debba affrontare in costanza di matrimonio (a titolo esemplificativo, il lavoro esterno dell’uno o dell’altro, che importi sacrifici intollerabili per gli interessi della famiglia).
L’indirizzo familiare così determinato viene attuato (art. 144 comma II) da ciascuno dei coniugi i quali, singolarmente, mantengono un margine di discrezionalità, nell’ambito delle soluzioni attuative di esso.
Qualora insorga disaccordo tra i coniugi, è possibile interessare il Giudice (art. 145 del Codice Civile). È essenziale notare, quanto a ciò, come l’intervento sia volto al tentativo di conciliazione tra le parti, nel mentre l’intervento “imperativo” del Giudice, con decisione vincolante, è possibile solo per alcuni argomenti (residenza o altri affari essenziali) e solo se entrambi i coniugi lo richiedano.
Il dovere di assistenza morale a materiale sussiste, però, a condizione che vi sia la coabitazione, venendo meno quando uno dei coniugi si allontani dalla residenza familiare senza giusta causa e rifiutandosi di tornare (art. 146 del Codice Civile). Entrambi i requisiti devono sussistere: quindi chi si allontana non deve avere un motivo legittimo (ricollegato a fatti che rendano intollerabile la convivenza) e deve rifiutarsi di rientrare, nonostante la richiesta dell’altro (che, diversamente, in assenza di sollecito in proposito, si crea una separazione di fatto, tollerata dal coniuge che rimane nell’abitazione).
L’impegno dei coniugi si estende, inoltre, all’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli (art. 147 del Codice Civile). Di tale disposizione, essenziale e centrale nel rapporto genitori-figli, ci si occuperà nell’articolo relativo al più ampio corredo di diritti-doveri tra detti soggetti, conseguenza del rapporto di filiazione.

Il matrimonio è, secondo la Costituzione Italiana (art. 29), il cardine giuridico della famiglia
Regime patrimoniale dei coniugi
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha segnato, come ricordato, un momento essenziale nella evoluzione giuridica dei rapporti tra i coniugi e, conformemente alla spinta paritaria che la ispirava, ha previsto quale regime patrimoniale ordinario del nucleo la comunione dei beni; così dispone, chiaramente, l’art. 159 del Codice Civile.
I coniugi possono però decidere, o all’atto della celebrazione del matrimonio o mediante le convenzioni matrimoniali, di aderire d un diverso regime patrimoniale; in particolare essi possono optare per la separazione dei beni oppure, ai sensi dell’art. 210 del Codice Civile, introdurre delle modifiche alle disposizioni sulla comunione legale, determinando un sistema, di fatto, intermedio tra regime legale (comunione) e la separazione.
Vediamo, quindi, le varie ipotesi
Comunione legale dei beni
È il regime giuridico di elezione per i coniugi; qualora non vi sia diversa manifestazione di volontà, il matrimonio determina l’assoggettamento a tale disciplina.
La natura della comunione legale tra coniugi è discussa, poiché, pur presentando analogie con la comunione ordinaria (artt. 1100 e seguenti del Codice Civile) presenta alcune specificità, tanto che la stessa Corte Costituzionale ha parlato di una “comunione senza quote” (Corte Cost. 311/1988), facendo riferimento alla circostanza che non sussiste la libertà del coniuge di disporre di una quota ideale del bene poiché quanto oggetto della comunione è vincolato alle necessità familiari (nel mentre, come noto, il singolo comunista, nella comunione ordinaria, può liberamente disporre della propria quota).
Il concetto appena espresso è codificato nell’art. 180 II comma del Codice Civile, il quale stabilisce che gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, avente a oggetto i beni della comunione, debbono essere compiuti “congiuntamente” dai coniugi. Il primo comma, invece, precisa che l’amministrazione dei beni è esercitata disgiuntamente.
Un po’ come in materia di indirizzo della vita familiare, il Codice dispone che le decisioni importanti e vincolanti siano prese “insieme”, lasciando poi a ciascuno le decisioni meramente applicative.
La possibilità che sorga un conflitto tra coniugi impone la previsione del rimedio giudiziale: l’art. 181 del Codice Civile stabilisce che in caso di rifiuto di un coniuge al compimento di un atto, per il quale è necessaria la condivisione (art. 180 II comma), è possibile per l’altro ricorrere al giudice, il quale sarà chiamato a valutare se l’atto è “necessario” nell’interesse della famiglia o dell’azienda (per l’ipotesi, di cui diremo, in cui tale bene faccia parte della comunione).
In casi specifici (art. 182 e 183 del Codice civile) uno dei coniugi può compiere da solo gli atti per i quali è necessario il consenso, ma solo previa autorizzazione del giudice e con le cautele da questo eventualmente fissate. In altri casi, invece, un coniuge, su richiesta dell’altro, può essere privato del potere di amministrazione (perché minore, oppure se non può amministrare o ha male amministrato). Tale esclusione opera di diritto, quando il coniuge viene dichiarato interdetto.
L’art. 184 si occupa dell’ipotesi che, a dispetto della normativa esposta, uno dei coniugi compia, da solo, un atto per il quale è invece prescritto il consenso di entrambi. La conseguenza è la facoltà dell’altro coniuge di esperire un’azione di annullamento volta, quindi, a privare di effetti l’atto; finalizzata, quindi, a ripristinare la situazione precedente all’atto vietato e, quindi, utile a far rientrare il bene nel patrimonio della comunione. Ciò riguarda i beni immobili (le case, tanto per intenderci) ovvero i beni di cui all’art. 2683 del Codice Civile.
Il termine per esperire l’azione è di un anno.
Se si tratta, invece, di beni diversi da quelli ora richiamati, l’obbligo del coniuge è di ripristinare la comunione nello stato precedente al compimento dell’atto oppure a versare una somma di denaro equivalente al valore del bene sottratto alla comunione.
A comprendere la richiamata natura “speciale” della comunione legale tra coniugi, vale l’analisi dell’art. 186 del Codice Civile e un suo confronto con gli elementi che si sono forniti discorrendo della “responsabilità patrimoniale“.
Avevamo sottolineato come, per il principio esposto dall’att. 2740 del Codice Civile, un soggetto risponda dei propri debiti con tutti i propri beni, presenti e futuri.
L’art. 186 del Codice Civile, invece, sottolinea come il principio non valga per quei beni che fanno parte della comunione legale tra coniugi o, meglio, come in materia il principio subisca delle deroghe. La norma, infatti, chiarisce che i beni della comunione valgono a far fronte solo ad alcune categorie di debiti, e in specie a quelli esistenti sul bene al momento dell’acquisto; a quelli contratti per l’amministrazione del bene stesso; a quelli relativi a spese di mantenimento della famiglia e istruzione ed educazione dei figli; a quelli relativi a obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, ovvero a obbligazioni generiche, ma contratte congiuntamente dai coniugi.
Anche alla luce delle successive disposizioni (artt. 187-190 del Codice Civile) possiamo sostenere che:
- i creditori della “famiglia” (obbligazioni di cui all’art. 186 del Codice Civile) possono soddisfarsi sui beni della comunione e, se questi non sono sufficienti, anche sui beni personali (art. 190 del Codice Civile), ma in questa seconda ipotesi solo per la metà del credito;
- i creditori personali di uno dei coniugi (art. 189 del Codice Civile), per obbligazioni personali (anche precedenti al matrimonio) o contratte dal coniuge senza necessario consenso dell’altro, possono soddisfarsi sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota ideale spettante al singolo coniuge, ma solo se i beni personali non sono sufficienti (c.d. Responsabilità sussidiaria);
- quando concorrono creditori personali e “famigliari”, i secondi sono preferiti relativamente ai beni comuni, a meno che non sussistano altre cause di privilegio.
Il regime di comunione legale si scioglie ai sensi dell’art. 191 del Codice Civile, per dichiarazione di assenza o morte presunta di uno dei coniugi, per annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovvero per separazione personale dei coniugi; si scioglie, inoltre, per mutamento del regime convenzionale ovvero per fallimento.
Di regola (può essere anticipato su ordine del giudice, art. 192 IV comma del Codice Civile) al momento dello scioglimento della comunione, debbono avvenire i rimborsi e le restituzioni, prescritte dall’art. 192 del Codice Civile e quindi:
- Il coniuge deve rimborsare alla comunione somme prelevate per spese non rientranti nelle obbligazioni dell’art. 186 del Codice Civile;
- Il coniuge deve rimborsare il valore dei beni di cui all’art. 189 del Codice Civile a meno che trattandosi di atti di straordinaria amministrazione non dimostri che sono stati utili alla famiglia;
- Il coniuge può richiedere la restituzione di somme che, prelevate dal proprio patrimonio personale, siano state impiegate per spese ed investimenti del patrimonio comune;
- Il coniuge, che risulti creditore, può chiedere di prelevare beni comuni sino alla concorrenza del proprio credito.
L’art. 193 del Codice Civile prevede la possibilità per uno dei coniugi di adire il giudice per chiedere la separazione giudiziale dei beni, in ipotesi quali il disordine degli affari di uno dei coniugi o la sua tenuta nell’amministrazione dei beni o quando metta a rischio gli interessi della famiglia.
Ai sensi dell’art. 194-195 del Codice Civile, effettuati restituzioni e rimborsi, si può procedere alla divisione, ripartendo in parti uguali attivo e passivo; ciascun coniuge può prelevare i propri beni mobili, ma, in mancanza di prova contraria, detti beni si presumono facenti parte della comunione.
È possibile, ora, analizzare i beni della comunione, come pure i beni personali, siccome espressamente elencati dagli artt. 177 e 179 del Codice Civile
Sono beni comuni, secondo il preciso dettato dell’art. 177 del Codice Civile:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, a esclusione di quelli relativi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Qualora si tratti di aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
In materia varrà notare la distinzione che sussiste tra beni che sono sempre comuni (ovvero gli acquisti, che non rientrino nella categoria dei beni personali) e beni che vi rientrano solo nella cosiddetta comunione de residuo (tra questi, i proventi dell’attività di ciascuno). In sostanza, per quanto riguarda i secondi, essi sono comuni solo se, al momento dello scioglimento (art. 191 del Codice Civile) sono ancora presenti.
Facendo l’esempio del reddito personale, quindi, possiamo precisare che il coniuge non diviene comproprietario del reddito dell’altro; il denaro, però, percepito, dovrà essere utilizzato per il bene della famiglia, nel rispetto dell’obbligo di cui all’art. 147 del Codice Civile, in base al tenore di vita che i coniugi avranno congiuntamente deciso; qualora il denaro residuo allo scioglimento sarà di proprietà comune.
Sono, invece, beni personali, secondo il preciso dettato dell’art. 179 del Codice Civile:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.
Separazione dei beni e convenzioni
Esposto compiutamente il regime della comunione, le altre due possibilità sono facilmente determinabili.
La separazione dei beni prevede (art. 215 del Codice Civile) che ciascun coniuge sia proprietario esclusivo dei beni acquistati durante il matrimonio, derivandone godimento e amministrazione in suo favore. Qualora un coniuge goda dei beni dell’altro, è tenuto secondo le obbligazioni dell’usufruttuario (in sostanza deve salvaguardare la destinazione del bene e mantenerlo in stato funzionale all’utilizzo). È libera la prova della proprietà esclusiva del bene (art. 219 del Codice Civile).
Mediante le convenzioni matrimoniali, invece, i coniugi possono mutare parzialmente il regime della comunione. Nel rispetto delle forme legali (art. 162 del Codice Civile) i coniugi possono decidere una diversa destinazione dei beni, ovvero includere nella comunione beni esclusi, ovvero, viceversa, escluderne alcuni che sarebbero inclusi. Non possono, però, limitare diritti e obblighi derivanti dal matrimonio (art. 160 del Codice Civile) ovvero richiamare genericamente usi o leggi (art. 161 del Codice Civile); non possono mutare il regime di amministrazione dei beni e il valore giuridico della comunione.
In sostanza possono unicamente decidere di mutare la composizione della comunione. Altro limite è che i beni di cui alle lettere c) d) ed e) dell’art. 179 del Codice Civile non possono essere inclusi nella comunione.
I beni che, per convenzione, siano entrati nella comunione rispondono dei debiti personali del coniuge che li ha contratti, nel limite del valore dei beni del coniuge prima del matrimonio (in sostanza, non ha efficacia l’atto che sia volto a sottrarre, mediante inclusione nella comunione, un bene personale alla garanzia per i creditori).
Lorenzo Zanella
Avvocato
Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Treviso