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Recupero in souplesse: i limiti

Cos’è il recupero in souplesse? E quali sono i suoi limiti?

Nelle molteplici tabelle di allenamento, indipendentemente dalla distanza obbiettivo e dal grado di efficienza fisica dell’atleta, si incontrano due tipologie diverse di recupero: il recupero passivo, in cui il soggetto alterna sforzi fisici di durata prefissata con periodi di riposo da fermo, e il recupero attivo. Il recupero attivo può essere svolto a buona intensità (di solito al ritmo del fondo lento) o in souplesse, in cui il soggetto compie un lavoro a bassa intensità.

Se l’esercizio fisico rimane al di sotto di una soglia di intensità pari al 50% della massima potenza aerobica del soggetto, i processi metabolici che avvengono nel recupero non devono rimuovere il lattato dal sangue, in quanto un lavoro a questa intensità non causa nessun accumulo. I processi fisiologici coinvolti servono solo per sintetizzare i fosfati e ricostruire le riserve di ossigeno dei muscoli, oltre a soddisfare la maggior richiesta energetica a causa dell’innalzamento del metabolismo (rispetto al valore basale) che si riscontra anche molto tempo dopo la fine dell’esercizio fisico. In questo contesto il recupero attivo o passivo non ha molto senso, perché non c’è molto da recuperare!

Per capire le caratteristiche del recupero in souplesse, occorre considerare il consumo di ossigeno nella fase successiva la prova, consumo che di norma eccede quello basale. Per questo motivo viene spesso indicato come consumo di ossigeno globale in eccesso (indicato con la sigla EPOC, dall’acronimo dei termini inglesi Excess Postexercise Oxygen Consumption).

L’EPOC è misurato in litri (L) e può essere messo in relazione con la durata dell’esercizio che precede il periodo di recupero. L’EPOC inoltre dipende dai processi fisiologici che intervengono nel periodo successivo alla prova, quindi a seconda della tipologia dello sforzo fisico può avere senso effettuare un recupero attivo o passivo. In particolare [1]:

Se l’esercizio fisico supera una soglia di circa il 60-75% della massima potenza aerobica del soggetto, il periodo che segue lo sforzo fisico è caratterizzato dalla necessità di rimuovere lo stato di accumulo di lattato nel sangue.

Sperimentalmente è stato osservato che

un’attività aerobica a bassa intensità nel periodo di recupero migliora la capacità di smaltire il lattato accumulato nel sangue, quindi migliora il recupero dell’affaticamento.

Ma cosa significa a bassa intensità? Il grado di intensità dell’attività del recupero dipende dal tipo di sforzo fisico, ovvero dallo sport praticato: per la corsa si stima che il recupero in souplesse debba avvenire a un’intensità compresa tra il 55% e il 60% della massima potenza aerobica, mentre per il ciclismo è decisamente più basso (tra il 29 e il 45%).

Questi risultati sono confermati da test effettuati sul cicloergometro [2] che prevedevano un lavoro massimale per sei minuti, seguiti da un recupero di 40 minuti di recupero attivo a bassa intensità (35%) e a intensità mista (due livelli di intensità: 35% e 65%). Queste percentuali si riferiscono tutte alla massima potenza aerobica del soggetto. Misurando la concentrazione di lattato in funzione della durata dell’esercizio, il recupero misto è risultato più efficiente nella rimozione del lattato, rispetto al recupero a bassa intensità (35%), che a sua volta si è rilevato più efficiente del solo recupero passivo.

La pratica

recupero in souplesseI dati sopraesposti chiariscono COME si smaltisce più velocemente l’acido lattico. Non si deve però pensare che la finalità del recupero sia banalmente quella di rimuovere il più in fretta possibile l’acido lattico (troppa grazia!). Troppi atleti cercano sempre la migliore condizione che permette loro di ripartire. Ciò è errato perché la finalità del recupero deve essere quella di “migliorare” una certa caratteristica dell’atleta, mediante uno stress organico sostenibile.

  1. Se la finalità è di abituare l’atleta ad alte concentrazioni di lattato (gare su 800-5000 m), meglio il recupero da fermo (che non consente uno smaltimento ottimale).
  2. Se la finalità è quella di abituare l’atleta a gestire a lungo quantità costanti di lattato (tenuta, gare dai 10000 alla mezza) è meglio un recupero attivo a buona intensità (che consente un certo smaltimento, ma non il massimo possibile).
  3. Il recupero in souplesse (che praticamente è quello migliore per lo smaltimento, soprattutto se la seconda parte della souplesse è più veloce della prima) è indicato invece per chi non riesce a gestire ancora bene l’acido lattico (principianti) o per chi esegue prove molto brevi dove, tutto sommato, non si ha un grande accumulo di lattato (80-200 m). Serve in questo caso a mantenere una certa tensione muscolare.

[1] L. B. Gladden: Lactate uptake by skeletal muscle, in Exercise and Sports Sciences Reviews, vol.17, Editore K. B. Pandolf, Macmillan New York, 1989.

[2] S. Dodd et al: Blood lactate disappearance at various intensities of recovery exercise, J. Appl. Physiol, pagg. 57-1462, 1984.

 

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