Il rabarbaro è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Poligonacee e originaria del Tibet e della Mongolia. Il nome rabarbaro deriva da un termine latino, reubarbarum, ovvero radice barbara; questa curiosa denominazione fa riferimento al fatto che, anticamente, la pianta non veniva consumata nei Paesi occidentali; inizialmente infatti il rabarbaro veniva utilizzato soltanto a scopi ornamentali e medicinali; si dovette attendere il XVIII secolo prima che venisse usato come cibo. Esistono molte specie di questa pianta erbacea, diffuse soprattutto fra Asia ed Europa e appartenenti al genere Rheum; tutte sono caratterizzate dalla presenza di una radice carnosa alquanto robusta e possono raggiungere altezze superiori ai due metri.
Le varietà più note sono tre: il rabarbaro con gambo e polpa di colore verde, quello con gambo rosso e polpa di colore verde e quello con gambo e polpa di colore rosso.
Il rabarbaro in cucina
A scopo alimentare si utilizzano soprattutto le coste della pianta; queste vengono utilizzate per preparare torte salate e insalate; possono però essere consumate anche lessate. Le foglie vengono raramente utilizzate come surrogato degli spinaci, ma se sconsiglia fortemente l’uso; sono ricchissime infatti di acido ossalico, una sostanza dai notevoli poteri lassativi che può causare diversi disturbi.
Nei Paesi anglosassoni il rabarbaro viene utilizzato anche essiccato e infuso nel succo di frutta, in particolar modo in quello di fragola. Con il rabarbaro sono anche preparate marmellate in abbinamento ad altri frutti (mele, fragole, albicocche ecc.). In alcuni Paesi del nord Europa viene consumato, soprattutto dai bambini, il gambo di rabarbaro candito.
Altri usi in campo alimentare sono quelli relativi alla preparazione di aperitivi o di amari; per la preparazione di queste bevande il rabarbaro può essere utilizzato da solo oppure in abbinamento ad altre erbe.
Proprietà del rabarbaro in fitoterapia
Il rabarbaro viene utilizzato anche a scopi fitoterapici; a scopo medicinale si utilizzano generalmente le radici che hanno superato l’anno di età; quelle essiccate vengono commercializzate in piccoli pezzetti o in polvere, ma si trovano anche prodotti quali tisane, gocce, compresse, decotti ecc. Alcuni principi attivi presenti nella radice vengono impiegati anche dalle industrie farmaceutiche.
In erboristeria la varietà più utilizzata è la Rheum palmatum; dal punto di vista delle proprietà fitoterapiche, tutte le specie della pianta sono molto simili, ma fra l’una e l’altra possono variare notevolmente le concentrazioni di determinati principi attivi (derivati idrossiantracenici, tannini e flavonoidi).
Il rabarbaro viene consigliato generalmente in fitoterapia per le sue proprietà aperitive, stomachiche, depurative e lassative.
Vista la notevole presenza di tannini, spesso la pianta viene consigliata in caso infezioni a livello intestinale e, per uso cutaneo, come astringente. Il rabarbaro viene altresì utilizzato per effettuare la disinfezione del cavo orale (risciacqui e gargarismi) e anche per trattare afte e ustioni.
Va precisato che l’utilizzo fitoterapico deve limitarsi al trattamento di disturbi di scarsa rilevanza clinica; un utilizzo eccessivo di prodotti fitoterapici a base di rabarbaro può essere infatti causa di irritazioni della parete intestinale; visti i suoi effetti lassativi, un utilizzo improprio potrebbe inoltre provocare diarrea e conseguente perdita di elettroliti. L’utilizzo eccessivo e prolungato, inoltre, può essere causa, nonostante le sue proprietà lassative, di costipazione; potrebbero anche verificarsi danni di una certa entità a carico della mucosa intestinale.
È sconsigliato il contemporaneo utilizzo di rabarbaro e farmaci ad azione diuretica, farmaci a funzione antiaritmica e farmaci a base di cortisone. L’uso è altresì sconsigliato alle donne in gravidanza e a quelle che allattano, in particolar modo a queste ultime, perché alcune sostanze contenute nella pianta possono conferire al latte materno un sapore alquanto sgradevole.
L’utilizzo è controindicato a quei soggetti che soffrono di colite, ulcera gastrica, morbo di Crohn, appendicite, calcolosi renale, prostatite, uretrite, fibromi e sindrome emorroidaria.
Come già accennato nel paragrafo precedente, è assolutamente sconsigliato l’uso delle foglie che, se consumate in discrete quantità, possono provocare disturbi anche seri (nausea, vomito, spossatezza, forte bruciore esofageo ecc.).